IDEE IN PSICHIATRIA. VOL 1:3, 101 2001
Riassunto: La metodologia proposta considera innanzitutto una fase medica, volta a distinguere patologie di origine organica da quelle primariamente psichiche. Ad essa segue la fase formale del colloquio, nella quale lo psichiatra comincia a orientarsi in base al proprio vissuto emotivo-affettivo di fronte all’interazione non verbale col paziente. La fase centrale del colloquio richiede al clinico almeno tre qualità fondamentali che gli consentiranno un primo orientamento diagnostico e prognostico.
A premessa dell’argomento da trattare, c’è una prima considerazione da fare: il colloquio clinico psichiatrico, nella sostanza, non dovrebbe differire in alcun modo se cambia il contesto.
Infatti, la conditio sine qua non di un colloquio clinico è la richiesta o la necessità del paziente; ossia il movimento che conduce il paziente, o consultante che dir si voglia, di fronte a uno psichiatra.
E forse una prima distinzione si potrebbe stabilire dicendo che nel privato si tratta, quasi al 99%, di richieste, ovvero di ciò che un paziente motivato dirige verso la persona dello psichiatra.
Nel pubblico, invece, la richiesta del paziente è meno diretta o addirittura impropria, anche di fronte ad una necessità di chiaro interesse psichiatrico.
La distinzione si basa sull’entità della motivazione al colloquio e sulla consapevolezza del consultante/paziente circa la competenza psichiatrica del suo problema.
Come si vede, non ci dovrebbero essere altre distinzioni riguardanti l’atteggiamento del consulente/psichiatra, a meno che non ci si riferisca alla opportunità di utilizzare un setting più personale e consono al proprio metodo di lavoro.
Rimandando ulteriori distinzioni alla parte finale dell’esposizione, affrontiamo il nucleo del tema e consideriamo il colloquio clinico in generale.
Colloquio medico e colloquio psichiatrico
Quando si parla di colloquio clinico in psichiatria si incorre nella necessità di distinguere il colloquio psichiatrico dal colloquio medico in genere.
Infatti, entrambi i colloqui rientrano nell’ambito più ampio della interazione medico-paziente e costituiscono lo strumento principale affinché la relazione tra il medico e il paziente acquisti un senso e diventi terapeutica.
Occorre quindi sottolineare come, in primo luogo, esista un denominatore comune tra i due colloqui e come esso sia rappresentato dall’incontro umano tra il medico e il paziente (Callieri 1984). A partire da questo incontro interumano, nel quale nessuno dei due interlocutori dovrebbe sminuire o limitare l’integrità dell’altro con il semplice rivolgersi al detentore di un ruolo, hanno inizio le differenze tra colloquio medico e psichiatrico.
La prima differenza consiste appunto nella costanza del colloquio psichiatrico, ossia nel permanere in esso della modalità verbale, la quale si mantiene costante dal primo all’ultimo colloquio senza accompagnarsi al contatto fisico diretto, come accade per tutte le altre branche della medicina.
Possiamo quindi sottolineare nel colloquio psichiatrico la completa assenza di necessità di acting out; e ciò è giustificato dall’attenzione che lo psichiatra concentra sulla realtà psichica piuttosto che su quella fisica.
Ovviamente, il medico psichiatra deve poter legittimamente concentrare tale attenzione senza rischi di trascurare gravi malattie organiche, per cui occorrerebbe sempre che le escludesse prima di occuparsi di realtà psichica.
Per evidenziare questa doverosa premessa di ogni primo colloquio psichiatrico, la indicheremo come fase medica, la quale è più o meno rilevante a seconda che il contesto sia pubblico o privato ma non è escludibile né facoltativa.
Ritornando alla caratteristica assenza di “passaggio all’atto” nel colloquio psichiatrico, unita alla costanza della modalità verbale di interazione, c’è da considerare come spesso il colloquio non sia possibile perché il paziente psichiatrico tende all’acting out e riduce la verbalizzazione fino al mutismo, oppure stravolge la comunicazione verbale fino a renderla senza senso.
In entrambi i casi, non è possibile condurre quello scambio verbale che definiamo colloquio clinico, anche se è possibile pervenire ad una prima impostazione diagnostica basata sull’osservazione e sulla interazione che non implica la parola.
L’evenienza di casi del genere ci porta ad evidenziare una seconda fase che precede il colloquio propriamente detto.
La fase formale
Chiameremo fase formale del colloquio quella in cui mettere in evidenza le caratteristiche non verbali del paziente, essenzialmente costituite da:
a) postura
b) movimento e andatura
c) sguardo e mimica
d) atteggiamento
e) modalità relazionali non verbali
Tuttavia, non è dall’analisi di questi singoli punti valutati separatamente che deriva il concetto di fase formale del colloquio.
Potremmo accostare la fase formale a una diagnosi per immagine, cioè alla percezione immediata di un insieme di elementi formali che emanano dalla persona del paziente, compreso il suo eventuale linguaggio incomprensibile.
L’incomprensibilità dei comportamenti e del linguaggio, considerata da Jaspers (Jaspers 1913) come patognomonica di una patologia schizofrenica, va intesa solo in termini formali e non assoluti. La comprensione, infatti, è possibile tutte le volte che dal piano formale si perviene al piano psicodinamico, nel quale gli atteggiamenti ed i comportamenti del paziente acquistano un senso e comportano dei nessi con la storia personale e gli eventi significativi prossimi e remoti.
Se, quindi, la fase formale del colloquio si riferisce a tutti quegli elementi che non riguardano i contenuti del colloquio ma a quella che potremmo definire la configurazione iniziale del colloquio, in essa si dovrà includere la partecipazione dello psichiatra, il quale, lungi dall’essere osservatore distaccato, entra a far parte del momento formale interagendo anche senza parlare.
La modalità interattiva dello psichiatra non è certamente frutto di atteggiamenti precostituiti e rigidamente riproposti secondo schemi. Uno psichiatra può interagire correttamente solo se innanzitutto si sia orientato, anche senza comunicazioni verbali logiche e comprensibili, di fronte alla fenomenologia e alla dinamica relazionale proposte dal paziente.
L’orientamento, prima ancora di essere diagnostico, è di tipo emotivo-affettivo e perciò dotato di notevole immediatezza, mettendo insieme l’intuizione di qualità latenti insieme con elementi esteriori della personalità, fino a rilevarne una visione formale che condensi in una sintesi i dati dell’osservazione.
In virtù di questo orientamento emotivo-affettivo, lo psichiatra si rapporta al paziente e “risponde” dinamicamente, cercando di ottenere la premessa a qualsiasi colloquio clinico, ossia: la disponibilità al rapporto medico-paziente.
Una volta definito e accettato un tale rapporto, anche in mancanza di comunicazioni verbali valide, la fase formale si può considerare conclusa e la base del colloquio adeguata. Ciò vuol dire che lo psichiatra ed il suo paziente hanno cominciato a interagire senza alcun bisogno del linguaggio verbale.
Qualora, in seguito, intervenga una comunicazione verbale sufficientemente valida, gli elementi formali vanno a costituire il contesto espressivo non verbale della comunicazione, per cui non si parla più di fase formale ma di contesto formale, il quale va considerato per tutta la durata del colloquio unitamente ai contenuti espressi con le parole.
Con l’inizio del linguaggio espressivo, l’attenzione dello psichiatra si sposta sui contenuti che emergono dal dialogo con il paziente, laddove il contesto formale del colloquio va a costituire la cornice all’interno della quale andranno collocati gli aspetti importanti della personalità del paziente, che serviranno a impostare da un lato la diagnosi, dall’altro l’eventuale proposta terapeutica.
Alcuni aspetti possono già essere colti nella fase formale (mediante l’orientamento emotivo-affettivo dello psichiatra), ma ovviamente si chiariscono ancor di più nel corso del colloquio.
Le dimensioni intenzionali dello psichiatra
Prima di esporre e valutare le qualità strutturali della personalità del paziente che possono emergere durante il colloquio psichiatrico, occorre evidenziare la posizione e l’attività dello psichiatra nel colloquio stesso.
Di solito, l’attenzione si concentra sul paziente e si dà allo psichiatra l’opportunità di affidarsi a un assetto più o meno schematico, corrispondente all’indirizzo teorico cui il singolo psichiatra aderisce.
Ciò conduce alla variabilità ed estrema incoerenza, tra i diversi psichiatri, nel modo di condurre il colloquio, ma anche alla violenza di imporre al paziente una griglia deformante che non fa altro che alterare ulteriormente il suo già fragile equilibrio, fino a indurre una frammentazione da considerare iatrogena a tutti gli effetti.
Ecco perché, a prescindere dagli indirizzi teorici prescelti, pensiamo che il colloquio psichiatrico non possa rinunciare ad alcune caratteristiche che lo definiscono e ne garantiscono l’originalità.
Senza queste caratteristiche, il colloquio verrebbe snaturato e il paziente subirebbe un inganno ed un eventuale danno.
Premesso, quindi, che la garanzia di un colloquio psichiatrico corretto debba provenire da una adeguata formazione personale e professionale dello psichiatra, possiamo definire le caratteristiche irrinunciabili del colloquio psichiatrico come dimensioni intenzionali dello psichiatra, ossia tendenze e atteggiamenti di fondo, i quali circoscrivono l’oggetto della ricerca alla realtà psichica del paziente, evitando di trascurare ciò che è di competenza psichiatrica per sconfinare nell’oggetto di ricerca, ad es., del colloquio internistico, neurologico, psicologico, sociologico etc.
Le dimensioni intenzionali dello psichiatra costituiscono quindi le coordinate del suo lavoro e gli permettono di occuparsi dell’oggetto della sua ricerca senza produrre sconfinamenti e confusioni in altri campi.
Per dimensione intenzionale intendiamo l’esercizio consapevole e sintonico di una attività che vede lo psichiatra impegnato a separare e distinguere ciò che è essenziale nella sua ricerca da ciò che non lo è.
Pertanto è possibile esporre e raggruppare le dimensioni intenzionali dello psichiatra quali premesse metodologiche all’incontro con il paziente.
La I dimensione intenzionale si esprime con il tendere all’introspezione, ossia procedere concentrando l’attenzione verso ciò che è interno, approfondendo progressivamente a partire dagli aspetti più esteriori e superficiali.
Questa prima dimensione, definibile come qualità introspettiva, stabilisce il senso della ricerca da ciò che è esterno a ciò che è interno; cioè nel verso esattamente opposto alla ricerca della medicina organica, la quale tende ad esteriorizzare e obiettivare fino alla localizzazione organica del disturbo. L’interno verso cui si dirige l’introspezione lo intendiamo ovviamente come spazio psichico.
L’attenzione dello psichiatra si concentra sulla realtà psichica per scelta e non per negazione o svalutazione della realtà fisica; il procedimento che va dall’esterno all’interno rende bene l’idea del percorso intenzionale dello psichiatra e ne qualifica in modo specifico il metodo, a prescindere dalla qualità dell’intervento terapeutico intrapreso. Uno psichiatra che ad es. dovesse rimanere concentrato esclusivamente su ciò che è esterno, ovvero ciò che è logico e obiettivo, senza tendere all’introspezione e all’approfondimento rimarrebbe lontano dalla realtà psichica del paziente; e la lunghezza del colloquio non potrebbe compensare in alcun modo la vacuità del metodo.
La II dimensione intenzionale consiste nell’attitudine all’ascolto nei confronti del paziente; ovvero nell’unica modalità che consenta la conoscenza di ciò che è intimo e profondo. L’attitudine all’ascolto si svolge anche attraverso domande che sollecitano l’interlocutore a chiarire ed esplicitare, dapprima i dati e le vicende della storia personale, poi le motivazioni, compresa quella motivazione che, insita nelle pieghe della storia personale, ha condotto il paziente di fronte allo psichiatra.
Questa dimensione intenzionale si potrebbe, quindi, definire come la qualità ricettiva dello psichiatra, il quale rifiuta di rispondere su ciò che non può sapere a priori e cerca di far emergere l’essenziale, ascoltando lo stesso paziente e interrogandolo.
Anche qui il confronto con il colloquio del medico organico è evidente. Costui interroga poco e comunque controlla la verità delle risposte attraverso esami fisici, biochimici e strumentali, i quali gli permettono di sapere la verità della condizione fisica del paziente prima e meglio di lui; come è noto nell’attesa, spesso snervante, cui i pazienti devono sottoporsi prima di ottenere il “responso” medico.
Allo psichiatra accade il contrario. Egli si pone all’ascolto e attende le risposte del paziente, in nome di una conoscenza che esclude l’obiettività perché è contenuta nell’interiorità di un essere umano.
La dimensione intenzionale ricettiva è sempre il frutto di una scelta metodologica di adesione al proprio oggetto di ricerca. Lo psichiatra ammette di non sapere nulla del paziente e per prima cosa lascia che i rilievi emersi dal contesto formale vadano, come si diceva, a costituire la cornice del quadro nel quale compariranno gli aspetti strutturali della personalità del paziente e della relazione tra sé e il paziente.
La qualità ricettiva è già una qualità dinamica, ossia il presupposto per il quale la conoscenza scaturisca dalla relazione con il paziente e non da un’osservazione distaccata, per quanto meticolosa, più adatta a un contesto anatomo-patologico.
La III dimensione intenzionale è una vera e propria tendenza alla integrazione e alla sintesi di tutto il materiale emerso nel colloquio.
Lo psichiatra, dopo gli scarni elementi della fase formale, ascolta e recepisce le cose che il paziente ha da dirgli, ponendo domande mirate per ricevere luce su alcuni passaggi e situazioni. Gli affetti e l’intelligenza dello psichiatra vengono stimolati dalle parole del paziente, sia dal contenuto che dal contesto formale nel quale vengono espresse. In virtù di questa dimensione intenzionale, che possiamo definire come qualità interpretativa dello psichiatra, quest’ultimo può passare dalla dimensione ricettiva caratterizzata dall’ascolto alla realizzazione di una conoscenza sintetica e intuitiva, direttamente collegata allo stimolo esercitato dalle parole del paziente.
La qualità interpretativa consente allo psichiatra di comprendere profondamente il significato dell’interlocuzione del paziente; ad es., considerando i fenomeni psicopatologici (disturbi del pensiero, deformazioni della personalità etc.) non come anomalie ma come punti salienti della storia personale, attraverso i quali, anche se li si considera delle reazioni fallimentari, la stessa storia personale acquista un senso e il percorso individuale, sebbene interrotto o accidentato, viene rintracciato e recuperato in quanto possibilità personale da riprendere e sviluppare in modo sano.
Fornito delle tre dimensioni intenzionali, lo psichiatra può apprestarsi a condurre la parte centrale e decisamente più importante del colloquio clinico.
In questa parte del colloquio emergono i dati qualitativi strutturali che, come si diceva, permetteranno di formulare un orientamento diagnostico e prognostico.
E’ bene sottolineare il termine orientamento per togliere all’argomento della diagnosi qualsiasi riferimento a giudizi inappellabili o etichette schematizzanti, i quali potrebbero trasformare l’esito di un colloquio in un verdetto con relativa condanna.
Perché questo non sia, occorre che l’espressione diagnostica si accompagni sempre alla prospettiva terapeutica; anche nel caso in cui lo psichiatra in colloquio avverta un limite terapeutico proprio o relativo alla struttura in cui lavora. Ciò vuol dire che lo psichiatra dovrebbe sempre essere in grado di indirizzare verso la cura i pazienti da lui valutati, anche se poi non sarà egli stesso a praticare la cura in questione.
Parlando di cura, occorre puntualizzare che lo psichiatra è tenuto a rispondere su ciò che è psichico (secondo la I dimensione intenzionale), ovvero su ciò per cui è consultato dal paziente. L’eventuale proposta di cura farmacologica non solleva quindi lo psichiatra dal rispondere alle richieste dirette di aiuto psicologico, e tanto meno lo autorizza a limitare il suo intervento ad una semplice prescrizione o applicazione di psicofarmaci, giustificandosi con la propria adesione a un indirizzo di psichiatria biologica. In tal caso, lo psichiatra farebbe svanire ogni distinzione tra colloquio psichiatrico e colloquio neurologico e dovrebbe per correttezza avvertirne il paziente, ed eventualmente i suoi familiari.
A corollario di quanto detto sopra, si può aggiungere che quel genere di colloqui psichiatrici del tipo cosiddetto fiscale (patenti, permessi di caccia, certificazioni di malattia, assicurazioni etc.) dovrebbero limitarsi ad escludere una patologia mentale piuttosto che dichiararne l’eventuale presenza senza garantirne la cura. Il perché risiede nella natura stessa della cura psichiatrica, la quale non può essere standardizzata, come avviene in campo medico; e questo in quanto non c’è intervento psichiatrico che possa prescindere da una relazione interpersonale terapeutica.
Le qualità strutturali della personalità
A) Nel paziente
Ritornando alla parte centrale del colloquio clinico, troviamo lo psichiatra con la fase medica, la fase formale alle spalle ed il contesto formale che circonda lo spazio nel quale le parole, il racconto del paziente faranno affiorare alcuni aspetti che si possono definire come qualità strutturali della personalità.
La I qualità strutturale del paziente che si pone all’attenzione dello psichiatra è l’affettività. Si tratta però di un elemento che per sua natura è dinamico e quindi potrebbe risultare carente ad un approccio iniziale; anzi, è molto facile che un contegno riservato e poco espansivo racchiuda qualità affettive del tutto adeguate, ma riesca ad ingannare attraverso un comportamento solo apparentemente freddo e distaccato. L’elemento affettivo si esprime nei rapporti umani, soprattutto con le persone significative ma anche con lo psichiatra. Quest’ultimo avverte intuitivamente questa qualità e la definisce a volte alla maniera di Minkowski: contatto vitale o contatto affettivo (Minkowski 1927).
Occorre aggiungere che l’intuito di una qualità strutturale come l’affettività non viene solo dal vissuto soggettivo dello psichiatra, ma anche dalla conferma contenuta nei dati biografici, nel tono del racconto, nei dettagli richiesti.
Naturalmente, la valutazione della tonalità affettiva del paziente richiede innanzitutto che lo psichiatra per primo sia fornito in modo adeguato di una qualità strutturale come l’affettività. Essa si esprime nella capacità di instaurare e mantenere un rapporto anche in condizioni di estrema precarietà affettiva da parte dell’interlocutore; e non può che integrarsi con la qualità interpretativa esercitata ai fini terapeutici.
La II qualità strutturale del paziente che è utile evidenziare in un colloquio clinico è la coerenza. Anche questa qualità ha già modo di evidenziarsi, come la precedente, nella fase formale del colloquio.
Nella parte centrale, però, quelli che appaiono soltanto come dei segni o degli atteggiamenti vengono ampiamente ricollegati, di volta in volta, a un disturbo del pensiero, dell’umore, della personalità etc.
Anche in questo caso esiste una incoerenza apparente, spesso fatta di azioni e discorsi fortemente intrisi di una tonalità affettiva instabile, esasperata e burrascosa, la quale altera ed impedisce un comportamento adeguato e fa apparire il soggetto come dissociato.
Esiste, d’altro canto, una incoerenza stabile e totalmente fredda e anaffettiva, nella quale il comportamento dissociativo potrebbe mancare a livello macroscopico. In realtà, approfondendo e quasi “andando a cercare”, spesso saltano fuori azioni e discorsi che permettono di evidenziare una sconnessione della personalità a vari livelli.
La III qualità strutturale che è necessario non mancare di evidenziare in un paziente è l’intelligenza. Il riferimento non è al Q.I. né al livello culturale ma ad una qualità di fondo consistente nella capacità di orientamento nell’ambiente umano, nei rapporti con le persone e la società.
In vario modo, i pazienti che giungono al colloquio clinico presentano una carenza a questo livello; per cui bisogna distinguere innanzitutto il disturbo dell’intelligenza dovuto a un restringimento della visione della realtà, quasi una sorta di stato crepuscolare intellettivo, il quale è dovuto alla scotomizzazione di alcune componenti della realtà propria e altrui. L’impressione di stupidità che scaturisce all’inizio del dialogo cede il passo, nell’offrire al paziente chiavi di lettura più accurate sulle sue vicende, alla progressiva scoperta del significato dinamico del difetto di intelligenza.
Diverso è un disturbo dell’intelligenza che sia totalmente impermeabile a punti di vista alternativi, nel quale il paziente si chiuda a riccio ostentando una oppositività incongrua mediante il tono ottuso e indifferente. La durezza sperimentata in una situazione del genere non può ricondursi a un disturbo cognitivo, anche quando sembra difficoltà di capire. Si ha l’impressione che il paziente in questione eserciti in qualche modo un’azione intesa a contrastare il senso di ogni cosa, anche a costo di soffermarsi su dettagli irrilevanti senza distinguerli dagli elementi di fondo.
Altro ancora è un disturbo dell’intelligenza che affiori dall’estremo concretismo delle affermazioni, le quali non lasciano alcuno spessore al racconto. Questa piattezza sintattica ed espressiva si unisce all’espressione scontata e sbrigativa, nella quale non è escluso che ci sia un tono ammiccante e affabile, derivato di una furbizia meschina e disperata dietro cui si cela il vuoto esistenziale.
Per completezza, occorre segnalare anche il caso di valutazioni cliniche in cui a un ritardo mentale si associ un disturbo psichiatrico. Bisognerebbe in tali casi escludere sempre la competenza psichiatrica, anche se poi essi spesso rimangono ai margini dell’assistenza ai malati mentali; magari proprio perché nel primo colloquio clinico non si è considerato abbastanza l’enorme incidenza del ritardo mentale, il trattamento del quale si riduce in gran parte all’intervento sociale.
B) Nello psichiatra
Nel valutare le qualità strutturali del paziente si è cercato di delineare una ricerca sufficientemente completa, indicando almeno tre punti fondamentali di repere: affettività, coerenza, intelligenza, e lasciando all’approfondimento di ciascuno la ricerca di altri elementi della personalità.
Le tre qualità strutturali, prese nel loro insieme, ci permettono già di inquadrare la personalità e le possibilità dinamiche del soggetto.
Lo psichiatra, in questa fase, dovrebbe essere ancora scevro da pregiudizi diagnostici; egli dovrebbe cercare un orientamento diagnostico interagendo con chi gli sta di fronte, piuttosto che osservarne passivamente il comportamento. La considerazione delle suddette qualità strutturali nel paziente richiede in modo indispensabile che le qualità stesse siano presenti nella persona dello psichiatra, in modo sufficiente ed equilibrato.
L’affettività si esprime nello psichiatra con l’azione delle dimensioni intenzionali su esposte, la terza delle quali richiede un intervento verbale mirato, che è già un prendersi cura e un modo di rispondere alla richiesta terapeutica del paziente.
La coerenza dello psichiatra dovrebbe essere un ulteriore modo di manifestare l’impegno nella cura, non soltanto con la non frammentazione dei discorsi e degli atti, ma con il far intravedere la propria disponibilità ad “opporsi” al modo frammentato e sconnesso dell’interlocutore, proponendo una relazione cui il paziente stesso è ritenuto in grado di partecipare, purché abbandoni la propria incoerenza e frammentazione.
L’intelligenza dello psichiatra, nonostante la laurea e la specializzazione, purtroppo non è scontata. Il lavoro clinico richiede una apertura mentale ed una elasticità che nessun manuale diagnostico può dare. La curiosità, la vivacità intellettuale, il senso artistico, l’acume filosofico di voler dare un senso a ciò che in apparenza lo ha perduto, la vitalità e la fantasia come risorse inesauribili del proprio essere interno, queste ed altre cose sono racchiuse nel concetto di intelligenza dello psichiatra.
Diagnosi di stato e progetto terapeutico
Il colloquio clinico così condotto potrebbe concludersi o meno con una diagnosi. Tuttavia, il pervenire alla diagnosi non dovrebbe preoccupare la dimensione clinica del colloquio.
Coloro che praticano la psichiatria in ambienti clinici sanno quanto sia provvisoria una diagnosi e, molto meno del passato, si dilettano ad etichettare i loro pazienti.
L’eliminazione di uno spazio contenitivo come il manicomio, se da un lato non ha ovviamente annullato le malattie mentali, ha reso superflua la classificazione a fine di internamento e ha dato un certo spazio alla diagnosi di stato, la quale dovrebbe essere seguita, e talvolta lo è, da una diagnosi connessa al progetto terapeutico iniziato al momento dell’eventuale ricovero o consultazione ambulatoriale. In tal senso, la vera diagnosi scaturisce dalle vicissitudini del paziente sottoposto a diversi trattamenti; per cui, se la diagnosi è poco credibile spesso ciò denuncia la poca credibilità dei trattamenti stessi.
Setting pubblico e privato
Volendo riprendere adesso quanto detto all’inizio sul colloquio clinico psichiatrico nel pubblico e nel privato, possiamo dire che nella sostanza è lo stesso.
La differenza potrebbe consistere semmai nella motivazione del paziente e nel setting.
Dalla motivazione del paziente dipende la profondità dell’intervento di cura, ossia il suo livello di radicalità, fino quasi a far coincidere l’intervento psichiatrico con quello psicoterapico.
Dal setting potrebbe derivare una maggiore o minore indipendenza dello psichiatra come medico e come persona, il che si trasformerebbe in una maggiore o minore capacità di esigere dal paziente cambiamenti radicali.
Il discorso sul setting rientra nell’annoso problema di come e quando l’istituzione possa condizionare un intervento psichiatrico, determinandone la natura e gli indirizzi secondo una logica culturale obbligata.
La chiave per uscire da una diatriba che per molto tempo ha rischiato di trasformare alcuni ambulatori ASL in stravaganti “studi psicoanalitici della mutua”, consiste nel recuperare il concetto di setting in quanto spazio comunicativo e relazionale, senza il quale non esiste né psichiatria né psicoterapia. Uno spazio del genere si può instaurare dappertutto, anche in condizioni di estremo disagio ambientale, come ad es. nell’ambito di un pronto soccorso ospedaliero.
Perché questo tipo di setting sia efficace, occorre che lo psichiatra sappia entrare in contatto con il paziente senza sentire come limitante l’assenza di un contesto adeguato. Occorre che lo psichiatra si muova liberamente, riuscendo, per quanto possibile, a mettere tra parentesi il contesto estraneo e spesso avverso allo svolgimento di un colloquio sereno.
Ciò che resta è sostanzialmente equiparabile a un colloquio che avvenga tra pareti decorate e comode poltrone. Ciò che resta ha a che fare con l’identità psichiatrica che dovrebbe essere innanzitutto identità personale, ossia non facilmente frammentabile dal contesto.
E’ possibile che sia, invece, il paziente a risentire della mancanza di un setting e a richiedere spazi e tempi opportuni, che però non sono gli spazi e i tempi astratti consigliati dalle tecniche psicoterapeutiche, ma corrispondenti alle proprie personali disposizioni ed alle proprie difficoltà.
Comunque, dovrebbe essere sempre possibile assicurare la riservatezza di un colloquio a porte chiuse. Il fatto che nel privato la cosa sia ovvia, ne fa una situazione di base cui ogni colloquio dovrebbe tendere. Questo non è un buon motivo per creare delle situazioni inverosimili nelle quali si cerchi di equiparare le due condizioni.
Oltre alla diversa motivazione riscontrata nei pazienti pubblici rispetto ai privati, bisogna considerare anche un fenomeno paradossale, nel caso in cui un paziente molto grave preferisca il disimpegno di una isolata consultazione psichiatrica nel privato (la quale non lo leghi ad un progetto terapeutico né alla continuità del rapporto) piuttosto che una “presa in carico” presso un ambulatorio pubblico.
In un caso del genere, uno psichiatra attento stabilisce un contatto diretto dal suo studio con la struttura territoriale cui rinviare il paziente dopo la consultazione. Senza questa ed altre eventuali dimostrazioni di correttezza, il colloquio clinico privato crea disorientamento nei familiari e asseconda l’onnipotenza del paziente grave, disposto a “scavalcare” la struttura pubblica per manipolare la cura e il medico.
Come si vede, siamo usciti dalla parte centrale del nostro argomento per ritornare alla cornice. Avevamo cominciato affermando che le distinzioni tra il colloquio clinico psichiatrico pubblico e privato fossero poco sostanziali; concludiamo dicendo che forse ci siamo impropriamente occupati del colloquio clinico pensando di esaurire un argomento, in realtà abbiamo introdotto solo il tema quanto mai vasto della relazione tra psichiatra e paziente.
B I B L I O G R A F I A
Callieri B. (1984) La fenomenologia antropologica dell’incontro: il noi tra l’homo-natura e l’homo-cultura. In: Fenomenologia: filosofia e psichiatria, a cura di C.L.Cazzullo e C. Sini. Masson, Milano
Jaspers K. (1913) Psicopatologia generale. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1964
Minkowski E. (1927) La schizofrenia. Einaudi, Torino 1998.