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Domenica, 08 Aprile 2018 22:37

Intervista a DIFFERENT MAGAZINE

Different Magazine
 
 
INTERVISTA di Miriam Bocchino
19 febbraio 2018
 
 
Buongiorno. “La fuoriuscita” è il suo nuovo romanzo. Tratta un tema molto particolare, quello della psicoterapia, esercitata agli eccessi. Il libro, come scritto nella prefazione, non si basa su fatti reali. Di conseguenza le chiedo se la sua stesura è totalmente fittizia oppure ha preso spunto da qualcosa in particolare?
 
Credo che tutta la produzione di uno scrittore abbia la sua matrice in fatti reali. Non tanto nel senso della cronaca quanto dei vissuti soggettivi dell’autore nelle sue vicende personali. Trattando il libro di psicoterapia, naturalmente, è fin troppo scontato che io abbia attinto alla mia esperienza e a fatti e situazioni vissute in prima persona. Ciò non significa che mi sia limitato a riproporre la fotografia dei miei trascorsi autobiografici. Il piacere di scrivere sta proprio nel comporre una trama e disegnare dei personaggi che, una volta creati, vivono di vita propria e quasi “costringono” l’autore a farli emergere nella loro originalità e indipendenza dalla vita di colui che li ha immaginati. Nella prefazione, appunto, ho sottolineato il termine allegorìa, che rivela quanto le forme, ovvero i personaggi e la trama servano a veicolare alcuni importanti contenuti, quelli sì assolutamente definiti dall’autore. Così, ho voluto affidare alla narrazione il compito di esporre la diversità tra due modelli opposti di fare psicoterapia, nell’intento di portare i lettori ad una consapevolezza scevra da qualsiasi intensione didascalica o dottrinale. Mi basta che percepiscano il rischio di sospendere il giudizio di fronte a pratiche e metodologie che richiedono la fiducia cieca e l’adesione passiva alle idee di colui (o di colei come nel libro) che accampa una non meglio definita superiorità intellettuale e una presunta e indiscutibile sanità mentale. Il modello che propongo come valido si manifesta nell’accordo continuamente perfezionato tra terapeuta e paziente, nell’interesse di quest’ultimo e che si conclude con l’emancipazione del paziente dalla persona del terapeuta.
 
Ho notato come non solo nel libro ma anche nella realtà, il sesso all’interno delle sette ricopra un ruolo importante. Perché avviene ciò?
 
Ottima domanda! Non c’è un campo più emotivamente coinvolgente del sesso e non c’è un argomento opinabile e soggettivo come il comportamento sessuale. Se, in una sfera tanto discussa e soggettiva, arriva qualcuno che propone delle conoscenze esplicite e crea degli schemi e delle modalità ideali, si verifica un flusso di interesse enorme, perché va a toccare la vita intima stessa delle persone. L’aveva capito lo stesso Freud che collocò la sessualità alla base dello sviluppo mentale (sbagliando purtroppo ed esponendosi alla giustificata critica di pansessualismo). Freud, però in fondo cercò di indicare anche il rischio di impulsi sessuali che dominano la personalità. Nelle realtà settarie, invece, il sesso è utilizzato come il grimaldello che altera la capacità di giudizio e l’equilibrio raggiunto da una persona, per scardinarne la struttura attuale e spingerla ad accettare le regole della setta di turno. In una setta psicoanalitica, come tante ce ne furono a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, per esempio, era importante attaccare la coppia stabile e chiunque avesse un modello di attaccamento organizzato, in funzione di un quanto mai fantomatico innamoramento da contrapporre al legame, e di un inflazionato concetto di relazione di desiderio da contrapporre al troppo tradizionale concetto di relazione affettiva.  Inoltre, il sesso sbandierato come banco di prova dell’equilibrio mentale, ha consentito e ancora consente ai falsi psicoterapeuti di giocare sulle incertezze e inibizioni che scaturiscono dal contesto sessuale per proporre schemi arbitrari e perfino collocarsi al centro dell’attenzione in modo esibizionistico.
 
La politica all’interno del romanzo fa capolino come mezzo utilizzato da Adele per l’ottenimento del riconoscimento da parte della società. Conosce casi reali in cui ciò sia realmente accaduto?
 
Assolutamente sì! La politica in Italia entra dappertutto e si mischia in malo modo con la Cultura e l’Economia. Inoltre, dato che il nostro mondo accademico è fermo pressappoco al medioevo, con lo strapotere dei “baroni”, ossia dei cattedratici, i quali fanno il bello e cattivo tempo, coloro che vogliono uscire dall’anonimato professionale o intellettuale fanno spesso anticamera nell’ambito di partiti e aree politico sociali, dove è più facile raggiungere l’opinione pubblica. Ciò che ho detto però non è tanto criticabile, specialmente quando chi emerge in questo modo ha veramente delle qualità che vengono bloccate dalle trafile universitarie. Il problema nasce quando queste qualità non ci sono e c’è solo l’ambizione di distinguersi, sulla base di idee antiscientifiche e bizzarre teorie campate in aria. Adele Lùssari, la psichiatra carismatica del libro ne è un esempio, con la sua “psicoscienza” e la smania di andarsi a sedere “tra quelli che contano”, dopo averne per tanto tempo parlato male e svalutato l’autorità. Questo fenomeno di colui che “nasce” ribelle e poi, dopo anni di pratica carismatica e settaria, pretende quasi per anzianità di “rientrare” nell’accademia è singolare e purtroppo tipico di una nazione provinciale come la nostra. Abbiamo visto questo “film” per tanti anni, per esempio, a proposito dei “ribelli del ‘68”, tanto agguerriti contro l’accademia prima e poi, una volta “riammessi” nel cerchio di potere, diventati inflessibili difensori di una cultura elitaria o propugnatori di un modello intellettuale aristocratico (radical chic) e di classe.
 
I sogni sono fondamentali nel processo di psicoterapia. Questo è vero anche nel processo reale?
 
Senza alcun dubbio! Questo è il grande merito di Freud (anche se non ne seppe fare uso che solo in parte), cioè quello di poter lavorare con del materiale spontaneo prodotto dal paziente. In fondo è come avere dei test di personalità già pronti da elaborare. Solo che l’elaborazione andrebbe fatta (come fa Livio Spada nel libro) insieme al paziente e non (come invece fa Adele Lussari) a spese del paziente, cioè calando dall’alto un’interpretazione oracolare e inserendo la persona e le opere del terapeuta nel materiale interpretativo. Questa posizione “egocentrica” del terapeuta che pensa e vuole occupare il centro dell’attenzione del paziente non è giustificata dall’intervento di una psicoterapia attuale. Il lavoro sui sogni serve a restituire al paziente la conoscenza di sé e delle sue risorse per crescere e separarsi dal terapeuta, non può essere la conferma del legame carismatico e della dipendenza di chi sta male nei confronti di chi si erge a “faro” di verità.
 
Martha appare in alcuni tratti una donna fredda, soprattutto nelle vicende che riguardano Diego e la morte dell’amica. È questa la sensazione che voleva far percepire al lettore?
 
Niente affatto. Martha non è fredda, anzi vive un mondo di emozioni vivaci che poi cerca di riportare sulle sue tele. Il problema è che Martha è insicura, ossia oscilla tra le sue intuizioni che sono straordinarie e la sua cultura che è subordinata alle roboanti e strombazzate attitudini di Adele, il capo carismatico del “grande gruppo”. Martha finisce per caso nella setta di Adele. All’inizio sembra giustamente perplessa, poi è la stessa dinamica del gruppo carismatico che la risucchia dentro il calderone della fiducia cieca e della non messa in discussione della sua guru. Una volta entrata in un rimando infinito di dipendenze e di autodenigrazioni, sulla scia delle pessime interpretazioni a effetto di Adele, Martha affonda nella palude della setta, diventando un’anima in pena e cominciando a soffrire di una depressione reattiva che lei considera il suo male. Per fortuna, Adele adocchia Diego, l’uomo di Martha, e lo capta nel suo giro (modalità carismatica per eccellenza), diventando la sua amante. Da quel momento, gli occhi di Martha, provvista di un’affettività molto salda, cominciano ad aprirsi, fino a dischiudersi completamente con la fuoriuscita dalla setta e l’incontro con Livio Spada, lo psichiatra che l’aiuterà in questo percorso. La “freddezza” di Martha, quindi, è solo lentezza e riflessività, tanto più con l’amica Laura, alla quale tenta di aprire gli occhi senza risultato. A differenza di Martha, infatti, Laura non ha una base affettiva solida e si lascia trascinare nel sadomasochismo contro Adele e nel sentimento di rivalsa contro il figlio di lei Ezio, suo compagno.
 
Continuerà la sua attività di scrittore ed ha già in mente un soggetto del quale le piacerebbe scrivere?
 
Grazie della domanda. Ho sperimentato così bene il piacere di scrivere che mi lancerò al più presto nel prosieguo della trama presente ne La Fuoriuscita. Se, come penso, ho in questo libro calcato la mano sulla differenza tra due modelli alternativi di psicoterapia, avrei intenzione di cercare di spiegare narrativamente ai miei lettori la realtà delle sette e del perché continuano anche dopo anni a mantenere quel legame indissolubile tra i seguaci e la struttura carismatica che, come un’idra dalle sette teste, rinasce ogni volta riproponendo quel modello avvolgente ed efficace di cui si conoscono vari volti. Mi piace l’idea di fare luce sui giochi complicati e sfuggenti di quanti giustificano le loro vite facendo gli impostori e, pur parlando con un linguaggio moderno, gestiscono le modalità mistico-religiose del medioevo.
Domenica, 08 Aprile 2018 22:14

Intervista a NIGHTGUIDE

NightGuide.it - Music e People - Foto, eventi, recensioni, interviste, festival e news.

https://www.nightguide.it/intervista/92066/il-taccuino-intervista-a-giuseppe-lago-autore-di-la-fuoriuscita

 

INTERVISTA di iltaccuinopress

6 aprile 2018

«Dei vari aspetti del romanzo La Fuoriuscita colpisce subito la caratterizzazione minuziosa e realistica dei personaggi, non solo di quelli principali. Qual è l'essenza del protagonista Livio Spada e della sua controparte negativa Adele Lùssari, e a cosa si è ispirato per delinearli?».

 

Livio è un uomo normale, non nel senso della banalità ma in quello dell'affettività. Cioè si pone sempre sullo stesso livello dell'interlocutore, senza particolari trampoli culturali che ne indichino la superiorità. Non gioca a fare lo strizzacervelli o il mistico conoscitore ineffabile dei segreti della mente. Si basa sull'esperienza, per cui è psichiatra per deformazione professionale, ossia osserva e ricerca continuamente l'aspetto latente della realtà, non si limita a prendere atto del visibile, cioè solo del comportamento. Nello stesso tempo, Livio è refrattario alle teorie e alle ideologie. Inoltre, benché potrebbe non mancargli il fascino personale, detesta l'erotizzazione delle relazioni in funzione fascinatoria. Preferisce far riflettere che “far innamorare”, anche se le sue interpretazioni dei sogni sono cariche di pathos e di poesia. Potrei continuare, e mi rendo conto che sto parlando di tutto ciò che Adele non è, ossia del suo contrario. Adele ha bisogno della pedana dove affonda nella sua poltrona “quasi gestatoria”, nuova eminenza di una religione che di laico ha solo il protocollo verbale e metaforico della sessualità, dichiarata e gestita in tutti i modi fino a renderla pura forma, strappandola all'intimità dove di solito si svolge. Una religione nuova, perché mistico è tutto l'apparato, ossia il rito della seduta che dura diverse ore con un “grande gruppo”, o il continuo salmodiare citazioni dal suo libro e lanciare invettive contro chi non si adegua alla sua visione del mondo. Religiosa è la fede che pretende dai suoi seguaci, ai quali non viene mai la benché minima idea di contraddirla o di dichiararsi insoddisfatti dell'oracolo interpretativo che sciorina su di loro. Mistico e soprannaturale è il suo approccio col nuovo arrivato Livio, pensando il cervello di quest'ultimo sia già all'ammasso, pronto ad essere predisposto per la creazione di un clone capace di ripetere gli assunti di base della sua “psicoscienza”. E invece Livio non è capace di pensare che con la sua testa, come Martha La Fuoriuscita che, per quanto confusa, non si adegua e quindi fugge imbattendosi proprio nello stesso Livio, che l'aiuterà.


«La storia di Martha Weber è quella di tante persone che si affidano a una guida esterna, a volte inaffidabile, per ritrovare il filo della propria vita. È un personaggio molto umano, con cui ci si immedesima facilmente. Pensa che il suo romanzo possa aiutare chi si trova in difficoltà, chi ha smarrito la strada e cerca un'ispirazione per reagire?».

 

Me lo auguro di cuore. Se è vero che non odio Adele, posso però dire che amo Martha e la sua cristallina autenticità, di fronte alla setta, di fronte alla terapeuta che le soffia il fidanzato con la scusa di curarlo, di fronte al dramma dell'amica che si autodistrugge. Del resto Martha è un'artista e il suo approccio è quello dei segni e dei sogni, per cui immagina ma non è mai sicura di quello che vede. Deve incontrare Livio per scoprire il piacere dell'evidenza inoppugnabile della riflessione intelligente, per scoprire che una relazione autentica spacca letteralmente il cristallo delle credenze e delle paure accumulate per anni, prima di scappare, di fuoriuscire. Sarei veramente felice se coloro che leggessero il libro, trovandosi in analoghe condizioni, potessero reagire come Martha, svegliandosi da un sonno non della ragione ma del pensiero innanzitutto inconscio, che una volta capito diventa verbale.

«Quale personaggio de La Fuoriuscita rispecchia maggiormente la sua visione dell'umanità e della professione di psicoterapeuta?». 

 

Naturalmente mi ritrovo in Livio Spada e nella sua sobria identità professionale. Come dicevo prima, è innanzitutto un medico e non potrebbe mai diventare un mistico o un clone di Adele o di chicchessia, dimenticando così di essere legato non solo al giuramento di Ippocrate ma ad una visione del mondo esente da pregiudizi e da considerazioni di ordine morale. “Al di là del bene e del male”, si potrebbe dire parafrasando il celebre filosofo, il medico ha come scopo la cura e ha pure il diritto di agire secondo scienza e coscienza. Nello stesso tempo “primum non nocere”, ossia il medico non può ledere più di tanto ai fini di cura (occorre il consenso informato) e soprattutto non può imporre la sua visione del mondo politica o filosofica, svalutando quella del paziente oppure imponendogli di aderire alla propria. In tal senso, la mia visione è agli antipodi di quella gestita dai tipi come Adele, i quali partono dal presupposto di detenere la verità anche profonda e di svelarla al soggetto che richiede un intervento di psicoterapia, cooptandolo in una serie di iniziazioni, dall'acquisto e lettura di certi libri, al sostegno di determinate ideologie politiche, fino all'acquisto di oggetti e gadget inventati dal terapeuta carismatico e diffusi nell'ambiente sociale come emanazioni dello stesso. Insomma, se non si fosse capito, nell'ambiente della psicoterapia sussistono ancora modelli contrapposti e in completo disaccordo. Personalmente propendo per il modello più scientifico che si è andato affermando negli ultimi vent'anni. Il modello precedente è molto filosofico per cui è stato spesso rappresentato da capiscuola e maestri autoreferenziali.

«Il “grande gruppo” di Villa Incom è una setta mascherata da centro di psicoterapia, in cui si millanta di offrire aiuto al paziente per raggiungere l'autorealizzazione. Una volta entrati si è soggetti a un lavaggio del cervello che sottopone il malcapitato a costrizioni e umiliazioni. Come è possibile interferire in modo così profondo nella psiche di una persona potenzialmente sana?». 

 

In parte ho già provato a spiegare quanto posto in questa domanda. Tuttavia, è sempre difficile spiegare il perché di un'adesione ferrea e il perché dell'accettazione di costrizioni e umiliazioni incluse nell'adesione stessa. Conta molto, in campo psicologico (non mi occupo di quello religioso) la promessa di far parte di un gruppo speciale, addirittura di una ricerca mai vista prima, ossia di un luogo imprescindibile che è un “dono” solo poter frequentare e “abitare”, come se per osmosi esso potesse trasferire qualità importanti. Come si vede, il misticismo gioca molto anche se ammantato di psicoanalisi maldigerita e giustificato dal contraltare materialistico e banalizzante della vita quotidiana. I più attratti, però, sono ignoranti, nel senso che non hanno mai veramente studiato o conosciuto materie filosofiche o cliniche. Così, nell'assistere a un concentrato di cultura, riveduto e corretto dal guru, se lo afferrano e lo imparano a memoria, spesso lo ripetono a pappagallo, leggendolo sul libro/vangelo del carismatico e negli scritti delle sue propaggini, composte da un cerchio magico di discepoli contenti di fare ala al personaggio e così riceverne un indiretto imprimatur. Costrizioni e umiliazioni sono alla base del potere carismatico. Di fronte al guru, ogni titolo sociale, culturale, familiare decade. Egli può insinuare e colpire senza remora l'autostima e l'equilibrio del seguace, perché venendo da lui quest'ultimo ha rinunciato ai diritti civili garantiti nella società reale. Ecco il motivo per cui, insieme a tanti illusi, nei gruppi carismatici circolano tanti furbetti i quali, assecondando le aspettative del guru (cioè offrendosi come materia prima del carisma) ci guadagnano (sia economicamente che socialmente), approfittando dell'alone che circondando il capo li lambisce anche di poco ma ne fa emergere il legame indissolubile con lo stesso. Insomma, se volete i seguaci del carisma si dividono sostanzialmente tra fessi e profittatori, con un passaggio tra l'una e l'altra condizione anche all'interno dello stesso soggetto in epoche diverse.

«Che canzone o genere musicale sceglierebbe per descrivere i personaggi principali del suo romanzo?».

 

Sono un amante del jazz e ritrovo nel mio libro la struttura di questa musica che mi affascina. Nel jazz, il genere migliore si gusta in trio o quartetto, dove ogni strumento ha il suo momento di protagonismo, inframmezzato con tutti gli altri che si alternano. Bene, i miei personaggi fanno così, hanno il loro momento centrale e poi rimangono intorno senza mai scomparire del tutto. Così, anche il “grande gruppo” potrebbe essere un'orchestra alla Duke Ellington, anch'essa piena di solisti che si alzano per l'assolo e rimangono più sfumati, per riemergere.

Domenica, 08 Aprile 2018 22:06

Intervista a IL PIACERE DI SCRIVERE

Il Piacere di Scrivere

 

https://ilpiacerediscrivere.it/intervista-a-giuseppe-lago-per-la-fuoriuscita/

 

INTERVISTA di Annarita Faggioni

12 febbraio 2018

1) La fragilità umana è uno dei fili conduttori di tutta l’opera. Come essere consapevoli della propria fragilità?

 

La fragilità umana si sperimenta innanzitutto nelle relazioni interpersonali. E di quest’ultime si parla essenzialmente nel libro. In primis la fragilità di Martha Weber, la fuoriuscita, la quale però non tenta di nasconderla e questa sua sincerità le permetterà di superare l’impasse che la vede vittima della setta di una presunta psicoterapeuta. Effettivamente, in tutta l’opera avviene il confronto continuo tra chi ammette e chi nega la fragilità umana. E se vogliamo c’è anche chi, lo psicoterapeuta positivo, Livio Spada, si propone di impedire che la fragilità umana diventi patologia mentale.Sul come essere consapevoli della propria fragilità il libro ha molto da dire. A partire da Martha ma anche da altri personaggi come Laura, che invece la propria fragilità la agiscono e la subiscono come un destino. In effetti, il termine fragilità ha un suo opposto che è l’invulnerabilità, quella che l’eroe mitico Achille aveva fino al tallone. Ezio, il figlio di Adele Lussari, la psichiatra carismatica, sembra avere questo vissuto di invulnerabilità, che fa presto a rivelarsi una mistificazione.Purtroppo è figlio di una madre intenta ad alimentare il proprio personaggio mitico e incommensurabile, e incapace di ammettere la propria e altrui fragilità, considerandole come attacchi alla sua persona. Anche la tragedia di un suicidio è visto da Adele come l’attacco violento alla sua creatura, il “grande gruppo”, così ripetendo l’errore di una presunta chiesa che lascia i suicidi fuori dai cimiteri.Nel libro, coloro che riescono ad essere consapevoli della propria fragilità lo fanno rispecchiandosi negli occhi di un’altra persona, quasi sempre disposta a condividere il loro vissuto di carenza e incompletezza. Nel libro, ma anche nella vita, hanno la meglio coloro che della fragilità hanno consapevolezza. Non è una questione morale, è una questione di intelligenza! Nel mondo naturale e in quello umano il primato spetta a chi è consapevole non a chi è privato del sapere di sé.

 

2) Perché la scelta del giallo per raccontare il rapporto tra paziente e psicoterapeuta?

 

In psicoterapia, si gioca con la vita delle persone, non meno che sul lettino di una sala chirurgica. C’è qualcosa di drammatico e rischioso che si attraversa lungo il percorso di una terapia psicologica. Se non fosse così, la relazione terapeutica somiglierebbe alle altre comuni relazioni non terapeutiche e viziate dalla coazione a ripetere gli stessi schemi e le stesse dinamiche. Anche se potrebbe essere difficile rintracciarlo del tutto, c’è un nesso tra gli eventi che accadono nel setting della psicoterapia e la realtà esterna. Le ripercussioni esterne si vedono e si sentono, anche se il nesso di causalità è più flebile e oscuro rispetto a ciò che accade nelle relazioni comuni. Il risvolto giallo nel finale del libro vuole dimostrare che la categoria del mentale assoluto non esiste e che il presunto dominio delle personalità altrui, l’autoreferenzialità di chi si incorona genio o essere al di sopra della media va spesso a sbattere con situazioni imprevedibili che smascherano o abbattono una presunta supremazia culturale nata dall’ambizione o dalla necessità di nascondere un fallimento umano.

 

3) La psicoterapeuta carismatica, nel romanzo, si crea una schiera di seguaci, quasi come una “setta”. Vuole raccontarci un po’ la storia del suo libro, soffermandosi in particolar modo su questo punto?

 

E’ una questione di Storia. Bisogna conoscerla e raccontarla nel modo giusto. La psicoterapia nasce e si sviluppa staccandosi dal grosso filone del misticismo e della magia. Riesce a fare questo solo in epoca positivista, ossia alla fine dell’Ottocento. Colui che delinea i tratti della psicoterapia moderna è Sigmund Freud, il quale rifiuta di fare l’ipnotista e si propone di far riflettere su se stesse le persone con la loro testa. C’è una corrente storica che vuole negare questo merito assoluto di Freud (il quale ha commesso molti errori nella sua teorizzazione, pur partendo col piede giusto) ed equiparare la psicoterapia alla suggestione o a qualcosa di mistico e spirituale. Abbiamo visto che i sostenitori del misticismo in psicoterapia si sono fatti sedurre dalle idee pre-freudiane sull’influenzamento di un individuo sull’altro, e hanno finito per diventare figure carismatiche, più simili a profeti che a sereni ricercatori della mente. Adele Lùssari, la psicoterapeuta carismatica del libro, definendosi allieva di Mesmer (il medico viennese che poco prima della Rivoluzione francese voleva chiudere le facoltà di medicina per imporre a tutti i malati le sue mani, ritenute magnetiche) smaschera la sua appartenenza all’epoca pre-freudiana e riporta i suoi seguaci al medioevo e alle credenze mistiche, più o meno condite con termini pseudoscientifici. Ecco perché la disputa tra Adele Lùssari e Livio Spada, lo psichiatra moderno e anticarismatico, fa diventare appassionanti le pagine del libro, indicando al lettore due idee ben diverse di psicoterapia, dimostrate ampiamente nei dialoghi e nella dialettica diretta tra i due. Resta da chiarire perché intorno alla Lùssari si forma un gruppo carismatico, ossia una vera e propria setta, e intorno a Spada c’è solo il risultato di un buon lavoro in psicoterapia, ossia la separazione e la solitudine del terapeuta che ha ormai svolto il suo compito. Ma questo potrebbe essere il tema di un prossimo libro.

 

4) Nei suoi libri, non è la prima volta che parla di questo argomento. Alla luce anche della sua attività di psicoterapeuta, come “si racconta” Giuseppe Lago?

 

Mi racconto meglio con le mie opere scientifiche e non. Però voglio sottolineare che il mio è un percorso formativo ed esperienziale. Non credo e, se permettete, irrido alla presunzione dell’uomo speciale o di quello “unto dal signore” che avrebbe il dono del carisma o la struttura del genio fin dall’infanzia. E’ chiaro che si tratta di mistificazione e agiografia d’accatto, inventata da seguaci e discepoli o da essi mediata dalle roboanti auto-narrazioni del loro guru. La mia esperienza si è formata in quasi quarant’anni di pratica professionale. Tutto quello che so lo devo a coloro che mi hanno permesso di entrare in contatto con la loro mente. Ho letto tanti libri ma le mie idee scaturiscono dall’esperienza. Il piacere è di scoprire che anche altri abbiano notato le stesse cose oppure le osservino da altri punti di vista. Senza soggezione o schiavitù culturale. Mi piace la psichiatria, perché somiglia alla prima medicina ippocratica, quando il medico doveva far diretta esperienza della fisicità del malato, in mancanza di strumenti. Ancora noi psichiatri, se vogliamo far bene il nostro mestiere dobbiamo “mischiarci” con l’umanità confusa dei nostri pazienti e portarceli dietro verso la sanità mentale, che vuol dire opporre riflessione ad emozione, senza uccidere quest’ultima. Ecco, scrivere un romanzo su queste cose significa integrare emozioni e riflessioni. In ciò mi riconosco, anche nella vita privata.

Domenica, 08 Aprile 2018 21:55

Intervista a OUBLIETTE MAGAZINE

 

 

 

 

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INTERVISTA di Antonella Quaglia

8 febbraio 2018

A.Q.: In La Fuoriuscita vi è la scelta di presentare due modi di intendere la psicoanalisi in cui, se da una parte c’è la necessità del terapeuta di far crescere il paziente, dall’altra si cerca invece la paralisi, la cristallizzazione dell’individuo per affermare una propria autorità. Per un profano è sconvolgente venire a conoscenza di una modalità distruttiva di una pratica che, vista dall’esterno, dovrebbe solo servire ad aiutare chi è in difficoltà. Tale deriva della psicoterapia è un problema ancora attuale? Esistono davvero gruppi settari come quello capeggiato dal personaggio di Adele Lùssari?

 

Giuseppe Lago: Purtroppo esistono ancora molti gruppi settari di questo tipo, innestati dentro una presunta deriva politica della psicoanalisi che affonda le sue radici negli anni settanta del Novecento. Qualcuno, in quegli anni, si propose come “innovatore” e artefice di una “rivoluzione” psicoanalitica che sarebbe dovuta andare di pari passo con quella che si svolgeva nella società e che aveva come filo conduttore la cultura e i movimenti del ’68. La presenza di questa deriva settaria e un po’ fanatica, del tutto in contrasto col vero metodo della psicoanalisi che è invece riflessivo e avverso alle mistificazioni, è riuscita ad alterare, almeno in Italia, la mente lucida di più di un contemporaneo. La carta politica, giocata con sincerità e coraggio dall’opera di Basaglia, il quale riesce a chiudere i manicomi nel 1978, viene usata in quegli anni da altri che per una ragione o per un’altra facevano anticamera negli istituti di psicoanalisi, alla ricerca di uno sbocco personale e di distinguersi in ogni modo. Diversi “guru” popolano le pagine dei giornali nelle ultime decadi del Novecento, sperando di essere convalidati nelle loro teorie prive di fondamento scientifico dal favore ottenuto tra i giovani e sempre meno giovani dei movimenti alternativi, disposti ad autenticare tutto ciò che si presentasse fuori dall’accademia e dal decrepito mondo universitario. Adele Lùssari è il prototipo di quei personaggi, spesso lontani anni luce dal comunismo o socialismo evocato a parole o nei simboli. Come loro, Adele è una intellettuale che ha come obiettivo l’emergenza di se stessa come outsider, sorpassando le complesse trafile dell’accademia e lottando contro l’angoscia di un anonimato considerato squallido e fallimentare. Meglio fare il “guru”, ossia buttare per finta alle ortiche la rispettabilità professionale ma nutrire l’ambizione di capovolgere il proprio fallimento con un exploit mediatico, diventando il fenomeno deprecato dei benpensanti ma conosciuto da molti e vincente nell’appena nata società dell’immagine. Per fare ciò, a costoro serviva una base di consenso adorante e pronta al sacrificio della propria identità, in funzione di quella collettiva di un gruppo, come nelle migliori sette religiose degli USA, sempre commiste a programmi pseudoscientifici e ad un fiorente sfruttamento economico. Chi essendo in difficoltà si è accostato (e ancora si accosta) all’Adele Lùssari di turno abbandona una vera opportunità di crescita personale, sacrificandola in nome di una presunta identità collettiva che fa solo il gioco del manipolatore autonominatosi genio incompreso o prosecutore dell’opera maldestra di un impostore che, a furia di sostenerlo per molti anni, i posteri faticano a riconoscere come tale, dandogli un credito postumo immeritato.

 

A.Q.: Sono tante le parti del romanzo in cui si narrano i sogni dei pazienti e se ne traggono interpretazioni. Ne derivano spunti molto interessanti che fanno riflettere il lettore. Quanto è importante nel suo lavoro l’attività onirica del paziente? È pratica diffusa, soprattutto tra gli scrittori americani, di tenere un diario sul comodino in cui segnare al risveglio i propri sogni. Sembra favorisca la creatività e l’esplorazione del proprio inconscio. Cosa ne pensa?

 

Giuseppe Lago: Ovviamente, ne penso il meglio possibile. Anche se nel libro sono ben distinte l’interpretazione corretta, che mette in evidenza il sognatore e il suo mondo, come potrebbe fare un test di personalità, dall’interpretazione scorretta, ovvero quella oracolare, nella quale l’interprete alla Lussari mette se stesso e confonde la mente di chi sogna, approfittando dell’ombra che circonda il mondo onirico. Comunque, sono convinto che il rapporto con i nostri sogni dovrebbe essere gestito quanto più da noi stessi, una volta imparato a leggere dentro di noi con l’aiuto di un esperto e non di un “guru”, sempre pronto quest’ultimo a infilarsi come un parassita nei nostri pensieri più reconditi.

 

A.Q.: Il suo romanzo si presterebbe bene a una trasposizione cinematografica. I personaggi sembrano schizzare fuori dalle pagine tanto sono tridimensionali, la trama è avvincente, con una concessione al genere giallo che rende la vicenda ancora più inquietante. Il tema della psicoterapia è spesso frequentato in film e serie televisive. Ha avuto proposte in merito?

 

Giuseppe Lago: Non proprio. Anche se il regista Livio Bordone, che ha presentato insieme a me il libro il 15.12.2017 alla  libreria Altroquando di Roma, non ha risparmiato lodi al testo e lo ha depositato presso la sua casa di produzione, in attesa di una proposta valida per un film. Posso dire che io stesso, mentre scrivevo, ho avuto di fronte a me lo scorrimento di immagini precise e atmosfere che solo il cinema, da me molto amato, può suscitare. In qualcuna delle sedute espresse nel libro è poi inevitabile cogliere l’influenza di ciò che abbiamo seguito con interesse nella serie tv In Treatment. In quest’ultima, tranne poche volte si sente costante l’atmosfera del setting della psicoterapia. Ne La Fuoriuscita, c’è una trama che ci porta dal setting alle vie della città, nei quartieri alti, nelle case dei quartieri popolari, nel giardino inquietante di villa Incom, ma anche in tante case, quella di Martha, piccola e antica, quella di Laura, attico di borgata, quella di Diego, affacciata sul lago, per non parlare di quella di Adele, gli interni di villa Incom.

 

A.Q.: Quanto ha messo di sé e del proprio sistema di valori nel personaggio dello psicoterapeuta Livio Spada?

 

Giuseppe Lago: Molto, forse moltissimo. Sono io come ero e come avrei voluto essere alla sua età. Sono sicuramente io come sono, con la mia voglia di non farmi ingannare dai sogni falsi e tuffarmi senza esitare in quelli autentici. Inoltre, ne ho fatto il sostenitore di una psicoterapia senza aggettivi, non psicoanalisi o altro, ma solo relazione con chi vuole evolvere, per riconsegnare questa persona alla propria vita senza “lucrare” sui suoi limiti o sulle sue impotenze. 

 

A.Q.: L’antitesi e antagonista di Livio Spada è la pseudo psicoterapeuta Adele Lussari. Non si può non pensare al fascino del male leggendo di lei, di come parla, di come si muove, di come prevarica chiunque entri nel suo spazio vitale. Spesso nella lettura ho pensato alla figura di Charles Manson, alla sua setta “The Family” tanto simile al “grande gruppo” di Villa Incom, e a come una sola persona possa emanare tanto potere e suggestionare e distruggere tante vite. Secondo lei in cosa risiede la forza di personaggi tanto negativi ma così carismatici?

 

Giuseppe Lago: Come è detto nel libro, nel quale mi autocito quale autore del saggio L’illusione di Mesmer, Adele Lùssari discende, per sua stessa ammissione, da Franz Anton Mesmer, ossia da colui che alla fine del Settecento inventò la suggestione, sostenendo di avere invece scoperto un fluido misterioso che dalle sue mani magnetizzava il prossimo e lo faceva “guarire” da tutte le malattie. Mesmer illuse un’epoca con presunte guarigioni miracolose. Poi, nell’Ottocento, misero a punto la natura suggestiva ergo psicologica dell’influenza da lui esercitata. Per questo, ho contestato che Mesmer possa essere il precursore degli psicoterapeuti, andando a scontrarmi con la stessa casa editrice del mio libro (Castelvecchi, 2014), la quale è stata spinta a tentare di cancellarlo da un gruppo di ammiratori di Mesmer al suo interno, fino a disconoscerne l’avvenuta pubblicazione. Poco male, perché già Alpes Italia me ne ha proposto una nuova edizione, che penso uscirà tra qualche anno. Tuttavia, quanto mi è successo sta a testimoniare che Adele Lùssari “è viva e lotta insieme a noi…!”. E se andiamo in giro a cercare, non è escluso che abbia una certa quantità di sostenitori inconsapevoli e di complici che ne apprezzano la condivisione del metodo Mesmer.

A.Q.: Nel romanzo si racconta del desiderio di Adele di entrare in politica, per portare all’esterno il proprio sistema di pensiero e completare una santificazione della propria immagine. Anche la politica, come la psicoterapia dannosa della Lussari, opera spesso un culto della personalità, facendo leva sul bisogno dell’uomo di avere una guida, di appartenere a un gruppo, a volte a scapito della propria identità. Come il cattivo psichiatra spesso il politico non vuole cambiare le cose ma affermare il proprio ego. Come si fa secondo lei una buona psicoterapia e una buona politica?

 

Giuseppe Lago: Il culto della personalità in politica per me ha un senso, anche se non mi riferisco ai dittatori o ai monarchi ma ai leader. Il leader deve essere al di sopra della massa in quanto rappresentante di essa. In questo, la penso come Eugenio Scalfari, il quale sostiene che la vera democrazia è una oligarchia, ossia il governo dei rappresentanti dei cittadini. D’altronde, un vero leader democratico si muove sulla spinta del consenso su un progetto e delle regole che per primo deve rispettare, pena la bocciatura nel voto. Non è la stessa cosa per lo psichiatra o psicoterapeuta. È vero che all’inizio quest’ultimo viene scelto più o meno liberamente. Meno libera però è l’adesione di una persona bisognosa e condizionata da limiti psicologici. Lo psicoterapeuta dovrebbe essere il “dictator” di pochi mesi, in attesa di una ripresa totale della personalità in panne del paziente. Non dovrebbe mettersi al posto dell’ideale di quest’ultimo, finendo per rappresentare il suo bene o il suo male. Il fattore comune accertato della psicoterapia è l’alleanza terapeutica non il carisma. Cioè, la funzione del terapeuta è l’affiancamento, non il traino o la “creazione” di un uomo nuovo alla Frankenstein. La psicoterapia che vale è quella democratica, dove il paziente è un contraente con pari dignità e può scegliere e diventare ciò che egli vuole. Lo psicoterapeuta si limita a ricordargli i suoi limiti e non solo ma anche le sue risorse, affinché la scelta del paziente sia più adeguata ed efficace. Ciò comporta che lo psicoterapeuta democratico non abbia modelli da ispirare al proprio paziente ma s’impegni a progettarne uno originale e funzionale alla vita di quest’ultimo.

 

A.Q.: Martha Weber è il personaggio cardine del romanzo; è attraverso lei che si contrappongono i metodi terapeutici di Livio e Adele. Martha racchiude le paure, la solitudine e la fragilità dell’essere umano. Entra a far parte del gruppo di villa Incom per guarire e invece, come lei stessa afferma “[…] in questi anni ho rischiato di perdere me stessa”. Villa Incom stessa è l’abbreviazione di incompleta. Il suo romanzo ha il potere di generare riflessioni sul nostro essere nel mondo, sul nostro modo di relazionarci. Quanto può aiutare la letteratura e la cultura in generale a prendere coscienza dei propri vuoti e a operare uno slancio verso il miglioramento?

 

Giuseppe Lago: Molto, molto più di quanto s’immagini. Questo è anche il motivo del fatto che, pur potendo riempire pagine e pagine di saggi e trattati di psicoterapia (come peraltro ho fatto negli anni passati), ho scelto di usare il metodo letterario e culturale per esporre a un pubblico più vasto i cardini di ciò che credo non dovrebbe riguardare solo psichiatri o addetti ai lavori ma le persone in genere, e quelle come Martha in particolare. Quelle come Martha sono la stragrande maggioranza delle persone e il loro comune denominatore è l’onestà intellettuale. Non ingannano e non vogliono ingannare se stesse e gli altri. Così piombano ogni tanto nella depressione e nella perdita dell’autostima, per l’incapacità di negare una propria sconfitta o di afferrarsi alla liana successiva per non cadere nel vuoto dell’apatia. Villa Incom è il luogo dove si riuniscono queste persone che pensano che esista una “completezza”, rispecchiata dalla spocchia affascinante di Adele. E invece l’incompletezza è degli esseri umani e chi non la mostra è un impostore oppure ha solo il buongusto di non mostrare le proprie ferite e le proprie carenze. Rassegnazione? Niente affatto! La completezza non può essere la protesi fallica della grandiosa Adele, determinata a nascondere anche la prosaica disgrazia di un marito suicida. La completezza è come una fata morgana che ci guida nel “seguir virtute e canoscenza”. Se qualcuno pensa di averla raggiunta, finisce sempre nel disumano e nell’astrazione. La Fuoriuscita, incompleta e ansimante, cerca un altro aiuto, dopo aver sperato per molti anni nel carisma di Adele. Il suo essere incompleta e umana offre a Livio Spada l’occasione per fare emergere dal profondo di lei una non meno incompleta ma sublime identità artistica.

 

Domenica, 08 Aprile 2018 21:42

Intervista a GOCCE DI SPETTACOLO

 
 
INTERVISTA di Silvestra Sorbera
7 febbraio 2018
 
 
 
“La Fuoriusicta” è l’ultimo romanzo del dottor Giuseppe Lago che oggi ci racconta del suo percorso di autore e medico. Un testo interessante con moltissimi risvolti sociali.
 
Dottor Lago, ci racconta del suo romanzo?
 
Nasce dalla mia esperienza e si configura come un’allegoria, totalmente sfrondata da elementi biografici o personali, fino a quando riesce a vivere di se stessa. Faccio l’esempio del mio primo romanzo Sogni da Navigare. Narra la storia di un giovane veneziano in epoca precolombiana. Egli naviga nelle galee di Venezia e andrà in Portogallo a conoscere le caravelle, scappando dalla Repubblica e dalle sue leggi.
 Mi sono ritrovato per intero in questo personaggio, ma la logica della storia così speciale mi ha portato a studiare per mesi la storia delle navi di Colombo e degli sconosciuti inventori delle caravelle. I personaggi del libro, benché riflettessero me stesso e le mie conoscenze dell’epoca in cui ho scritto, hanno così cominciato a vivere una vita propria e a intrecciare una trama che neanche io all’inizio immaginavo. Lo stesso mi è successo con La Fuoriuscita . Ho avuto un’ispirazione in diverse persone seguite in psicoterapia con un passato di setta psicologica alle spalle. Non appena sono nati Martha Weber o Adele Lùssari, o Laura o Marinella o i tanti altri numerosi personaggi presenti nel romanzo, ognuno di loro mi ha costretto a rispettarne la coerenza e i miei spunti, compreso me stesso, sono venuti meno, totalmente schiacciati dalla consistenza dei personaggi.
 
“La Fuoriuscita” può avere molteplici significati. Fuoriuscire da una famiglia, da un gruppo, da un lavoro. Come si rappresenta oggi?
 
Fuoriuscire da un gruppo carismatico. Cioè, avere il coraggio di lasciare un contesto avvolgente e rassicurante nel quale non si è costretti con la forza fisica ma con una modalità che ha a che fare con la dipendenza. Si entra affascinati da una serie di promesse e vaghe speranze, che nel caso della psicoterapia si materializzano nella cosiddetta “guarigione”. Come se ci si aspettasse il “miracolo” di una modificazione totale della propria personalità, accettando il modello rigido e ambizioso proposto dal guru o capo carismatico di turno. Questa promessa di cambiamento è falsa e antiscientifica ma affascinante, proprio perché viene evitata da coloro che la psicoterapia la fanno in modo serio. I veri psicoterapeuti non parlano di “guarigione” (non ci sono malattie ma disturbi) ma di equilibrio, ovvero capacità di gestire se stessi a partire dalla conoscenza profonda della propria storia e delle proprie qualità. Il cambiamento non è una metamorfosi miracolosa ma un processo di maturazione che dipende da una capacità riflessiva acquisita nel setting della psicoterapia. Naturalmente, la metamorfosi è più entusiasmante quando proposta in un “grande gruppo”, e si caratterizza come l’obiettivo che si raggiunge uniformandosi ai dettami del medesimo gruppo carismatico diretto dal suo guru. Fuoriuscire, quindi, corrisponde con la caduta di aspettative mitiche e con la ripresa del contatto con la realtà circostante meno accattivante ma assolutamente reale.
 
Quali sono gli eccessi della psicoterapia?
 
La psicoterapia va prima definita, altrimenti ognuno si lascia prendere dall’idea dominante o fuorviante del momento. Psicoterapia è una relazione alla pari tra un esperto e una persona con difficoltà psicologiche. L’esperto, che non deve presentare le stesse difficoltà psicologiche del paziente, aiuta il paziente a riflettere su se stesso e si serve di tutti gli strumenti a disposizione, pensieri, angosce, sogni etc. L’esperto non sta al di sopra del paziente, nel senso che non gestisce un sapere assoluto né lo minaccia con diagnosi di patologia nell’intento di costringerlo a cambiare. L’esperto affianca il cliente e lo aiuta a realizzare se stesso sulla base delle proprie aspettative e non sulle aspettative che un esperto può avere, a cominciare dal modello di persona sana stabilito dalla scuola di pensiero cui l’esperto stesso fa riferimento. Ebbene, tutte le volte che la psicoterapia non viene gestita da esperti che rispettano l’umanità del paziente e la sua storia, abbiamo gli eccessi. In questo, Adele Lùssari non si fa mancare nulla. La sua gestione del carisma la porta ad essere l’asse del suo “grande gruppo”, intorno al quale ruotano gli altri in una condizione di totale soggezione culturale e personale. L’innesto poi, della componente politica nella prassi di Adele, non fa che rinforzare il suo carisma, allontanando da lei i sospetti di una totale autoreferenzialità e collocandola nella sfera dei ribelli che danno spazio alle classi più deboli o a un quanto mai mistificante concetto di collettivo. Potrei dire che nel descrivere gli eccessi di Adele ho effettivamente spiegato quelli che io credo siano i più comuni errori in psicoterapia.
 
 
Come coniuga la sua professione con la scrittura?
 
Sono più di trent’anni che parlo ai miei pazienti, cercando di raccontare la loro vita, per riorganizzare la loro personalità. Trovare le parole per descrivere in modo efficace una persona e la sua storia è come scrivere un racconto che avvince e affascina. Certo, ho sempre avuto un talento narrativo, fin dall’infanzia. La mia professione, però, mi ha permesso di entrare nelle vite degli altri e di poter restituire loro la stima di sé senza giudizi o schemi, semplicemente raccontando l’insieme che su un piano narrativo acquista senso, anche quando il risvolto è drammatico o traumatico. Parlo molto nel mio lavoro, tanto che più di un paziente a volte me lo fa notare. Sarà perché non accetto i racconti sconnessi e frammentari e vorrei subito sistemare in senso narrativo la quantità di dati che mi capita di ascoltare dalle persone.
Sabato, 07 Aprile 2018 22:59

Intervista a UKIZERO

Ukizero - ukizero.com – Lunario della parevoluzione

 http://www.ukizero.com/giuseppe-lago-la-fuoriuscita-intervista/?platform=hootsuite

INTERVISTA di Borja Bolcina
11 febbraio 2018
Una storia che affronta il tema della psicoterapia e dei suoi eccessi

In dodici capitoli, un viaggio nel mondo delle emozioni, degli affetti, delle dinamiche interpersonali. Una trama profonda e affascinante, che conduce nelle aree cruciali di un percorso che molte persone ormai praticano o hanno praticato. Uno scenario che presenta una vicenda complessa e avvincente, che nel finale si tinge di giallo e di risvolti inaspettati

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– Ho trovato la trama del suo romanzo particolarmente accattivante. Devo però notare che il libro si muove in direzioni differenti: è un romanzo psicologico nel suo complesso che sconfina nel giallo. Lei come definirebbe il genere de “La Fuoriuscita”?

 

Con un neologismo “psicogiallo”, anche se il genere in verità è chiaramente quello psicologico. Il registro però non è didascalico (come nei libri di Irvin Yalom) ma drammatico, in quanto le dinamiche narrate esprimono elementi emotivi che possono sfociare nella violenza diretta dei personaggi contro se stessi o gli altri. Il fatto che il giallo emerga verso la fine del romanzo non è un caso ma la conseguenza del sistema carismatico costituito da Adele Lùssari. Costei è forte nel fustigare i suoi “pazienti”, rinfacciando loro le carenze dello sviluppo psicosessuale che essi presentano. Nei confronti del figlio Ezio, invece, la sua si rivela una figura materna assai carente. Ecco, il giallo emerge da questa discrepanza e si snoda nei capitoli finali come il risultato delle vicende precedenti.

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– Come nasce e come si sviluppa il processo di creazione di un suo romanzo?

 

Nasce dalla mia esperienza e si configura come un’allegoria, totalmente sfrondata da elementi biografici o personali, fino a quando riesce a vivere di se stessa. Faccio l’esempio del mio primo romanzo “Sogni da Navigare”. Narra la storia di un giovane veneziano in epoca precolombiana. Egli naviga nelle galee di Venezia e andrà in Portogallo a conoscere le caravelle, scappando dalla Repubblica e dalle sue leggi. Mi sono ritrovato per intero in questo personaggio, ma la logica della storia così speciale mi ha portato a studiare per mesi la storia delle navi di Colombo e degli sconosciuti inventori delle caravelle. I personaggi del libro, benché riflettessero me stesso e le mie conoscenze dell’epoca in cui ho scritto, hanno così cominciato a vivere una vita propria e a intrecciare una trama che neanche io all’inizio immaginavo. Lo stesso mi è successo con La Fuoriuscita. Ho avuto un’ispirazione in diverse persone seguite in psicoterapia con un passato di setta psicologica alle spalle. Non appena sono nati Martha Weber o Adele Lùssari, o Laura o Marinella o i tanti altri numerosi personaggi presenti nel romanzo, ognuno di loro mi ha costretto a rispettarne la coerenza e i miei spunti, compreso me stesso, sono venuti meno, totalmente schiacciati dalla consistenza dei personaggi.

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– Quali sono gli eccessi della psicoterapia di cui si parla nel libro?

 

La psicoterapia va prima definita, altrimenti ognuno si lascia prendere dall’idea dominante o fuorviante del momento. Psicoterapia è una relazione alla pari tra un esperto e una persona con difficoltà psicologiche. L’esperto, che non deve presentare le stesse difficoltà psicologiche del paziente, aiuta il paziente a riflettere su se stesso e si serve di tutti gli strumenti a disposizione, pensieri, angosce, sogni etc. L’esperto non sta al di sopra del paziente, nel senso che non gestisce un sapere assoluto né lo minaccia con diagnosi di patologia nell’intento di costringerlo a cambiare. L’esperto affianca il cliente e lo aiuta a realizzare se stesso sulla base delle proprie aspettative e non sulle aspettative che un esperto può avere, a cominciare dal modello di persona sana stabilito dalla scuola di pensiero cui l’esperto stesso fa riferimento. Ebbene, tutte le volte che la psicoterapia non viene gestita da esperti che rispettano l’umanità del paziente e la sua storia, abbiamo gli eccessi. In questo, Adele Lùssari non si fa mancare nulla. La sua gestione del carisma la porta ad essere l’asse del suo “grande gruppo”, intorno al quale ruotano gli altri in una condizione di totale soggezione culturale e personale. L’innesto poi, della componente politica nella prassi di Adele, non fa che rinforzare il suo carisma, allontanando da lei i sospetti di una totale autoreferenzialità e collocandola nella sfera dei ribelli che danno spazio alle classi più deboli o a un quanto mai mistificante concetto di collettivo. Potrei dire che nel descrivere gli eccessi di Adele ho effettivamente spiegato quelli che io credo siano i più comuni errori in psicoterapia.

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– Ci racconti delle due figure principali, concettualmente agli antipodi, di Adele Lùssari e Livio Spada.

 

Era necessario far scaturire la differenza tra i due modi di intendere la psicoterapia mettendo a confronto due personaggi, che guarda caso sono un uomo e una donna. La loro dialettica, che poi si trasforma in uno scontro, scaturisce dal modo in cui sono stati concepiti come personaggi. Così, una volta creati Livio e Adele, essi hanno cominciato a reagire l’un l’altro lasciandomi quasi a guardare il loro confronto. Il regista Livio Bordone mi ha fatto notare che Adele è veramente un personaggio affascinante, anche se disegnato a tinte fosche. Marco Sparvoli, un collega psicoterapeuta che scrive libri gialli, alla presentazione mi ha chiesto se avevo qualcosa a che fare con Adele ed io gli ho risposto che tutti i giorni a tutte le ore cerco di non essere come lei. Ciò non significa che cerchi di essere come Livio Spada. Lui esiste come il positivo dell’altra ma non era mia intenzione farne un eroe. Anche la stessa Adele è presentata in situazioni molto umane, che allontanano da lei l’alone malefico della strega. Infatti, non mi piace chi brucia le streghe, uomini o donne che siano. Preferisco correre il rischio di esaltare un personaggio negativo, piuttosto che volutamente renderlo odioso ai lettori. Il finale del libro, ossia lo sguardo al percorso esistenziale del personaggio, a mio avviso, è sufficiente a farne un ritratto che la colloca nella giusta dimensione, senza aspetti caricaturali che la demoliscano per volontà dell’autore.

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– È troppo presto anticiparci quale sarà il futuro di Adele e se avrà un futuro?

 

I personaggi come Adele, per me, non dovrebbero avere un futuro, per quanto dicevo dianzi. Basta raccontare il loro percorso esistenziale per renderne visibili al lettore le contraddizioni e i vuoti inconsapevoli. La Storia insegna che i personaggi carismatici muoiono male, non tanto per il tipo di morte quanto per la stessa irriverenza della morte, la quale li priva degli orpelli e delle pretese che per tutta la vita hanno gestito, spesso in modo mistificante. Sic transit gloria mundi, si suole dire anche quando non di carisma si tratta ma di effettivo potere. Quello che è sicuro è che i proseliti, cioè seguaci e discepoli dei personaggi carismatici, non si arrendono facilmente alla realtà della morte del loro guru. Per tutta la vita, chi si è fatto inglobare in un sistema carismatico fa vivere dentro di sé ciò che gli viene detto, imposto, ispirato. Per cui, non può accettare che tutto questo finisca per sempre, e allora procede con la mummificazione del capo carismatico (Lenin?) e trasforma il carisma in istituzione ferrea, con le opere del morto esposte come vangeli e le reliquie adorate in pubbliche adunate. Ecco la fine di Adele!

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– A quali scrittori del suo filone e a quali letture in generale è rivolta principalmente la sua attenzione?

 

Certamente ho preso in considerazione l’opera di Irvin Yalom, anche lui come me psichiatra e psicoterapeuta di gruppo. Per gli altri autori rimango ai classici, in quanto sono un lettore sporadico di narrativa. Adoro Camus e la sua prosa asciutta, e naturalmente Celine. Posso dire che mi sono fatto le ossa con il romanzo francese, Balzac, Hugo, Flaubert, Maupassant. Tra gli italiani ho una passione per Pirandello, Calvino, Moravia. Ahimè, adesso non leggo più nulla se non saggi scientifici. Ma vedo molto cinema. Forse è per questo che la forma dialogica è molto presente ne “La Fuoriuscita”.

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– Quali sono i punti di contatto del suo romanzo con la tematica trattata nella serie televisiva “In treatment”?

 

Forse proprio quanto ho finito di dire: il dialogo. Il serial è molto ben fatto dal punto di vista psicologico e riporta casi clinici non banali, probabilmente presi dalla realtà. Di “In treatment”, mi è piaciuta la capacità di rendere visibile una seduta di psicoterapia, lasciando che fossero i contenuti e non l’azione scenica a movimentare la narrazione. È straordinario cogliere il movimento narrativo quando ciò che lo produce non sono le persone, quasi sempre sedute su due divani contrapposti, quanto le parole, le espressioni del volto, i dettagli e gli accenti delle frasi. Tuttavia, nel mio romanzo non c’è solo il setting della psicoterapia, anzi gli ambienti sono diversi e spesso rappresentati dalle case dei vari personaggi. Come dire un po’ di In treatment e in più il contesto urbano o naturale che colloca i personaggi nel mondo e non soltanto nella parentesi di un incontro psicoterapeutico.

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– La sua professione incide e, se incide, quanto incide sull’attività di scrittore e con il suo stile di scrittura?

 

Incide moltissimo. Sono più di trent’anni che parlo ai miei pazienti, cercando di raccontare la loro vita, per riorganizzare la loro personalità. Trovare le parole per descrivere in modo efficace una persona e la sua storia è come scrivere un racconto che avvince e affascina. Certo, ho sempre avuto un talento narrativo, fin dall’infanzia. La mia professione, però, mi ha permesso di entrare nelle vite degli altri e di poter restituire loro la stima di sé senza giudizi o schemi, semplicemente raccontando l’insieme che su un piano narrativo acquista senso, anche quando il risvolto è drammatico o traumatico. Parlo molto nel mio lavoro, tanto che più di un paziente a volte me lo fa notare. Sarà perché non accetto i racconti sconnessi e frammentari e vorrei subito sistemare in senso narrativo la quantità di dati che mi capita di ascoltare dalle persone.

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– Le faccio una domanda particolare in qualità di psichiatra psicoterapeuta, considerando anche che lei è stato intervistato più volte da emittenti nazionali su efferati casi di recente cronaca nera. In Italia stiamo assistendo a un impressionante aumento di violenza sulle donne e di violenza in generale. Negli ultimi anni da noi sono cresciuti in modo esponenziale non solo il numero e la tipologia di media ma anche le ore di programmazione di messa in onda di notizie su innumerevoli piattaforme. Le chiedo: esiste una relazione, anche solo lontana, tra violenza e pressione mediatica di notizie sanguinose che alcuni di noi subiscono ogni giorno? O meglio: la nostra società è pronta a questo continuo bombardamento di notizie in tempo reale diffuse ventiquattro ore al giorno che si vanno a mischiare nella mente dell’utente a fake news, programmi satellitari, canali on demand?

 

 

Tema assai importante e serio. Quanto ci influenzano le immagini in senso negativo? Il fatto è che per fortuna ci influenzano anche in senso positivo, per cui la cultura di massa andrebbe curata con attenzione dalle istituzioni. Non farò discorsi sociologici, ci sono esperti più preparati me. Vorrei però evitare di guardare il dito anziché la luna. Di per sé non è un male tutta questa informazione. Diciamo che è servita a sprovincializzare il mondo e soprattutto l’Italia. Ma ha creato il fenomeno del Truman show, ossia la possibilità che modelli artificiali e mistificanti possano entrare nella nostra mente, condizionandone le scelte e la riflessività. L’orientamento diventa a questo punto fondamentale. Penso che la psicoterapia moderna debba fornire questo orientamento, evitando di voler somigliare a una fonte di suggestione come la psicoterapia arcaica o carismatica. Quanto alla violenza, ritengo l’idea che sono le immagini di violenza a innescarla una panzana. Casomai la fiction può indurre fenomeni di moda e manierismo, tipo il bullismo mediatico. La violenza, a mio avviso, è sempre suscitata da altra violenza diretta, quella vera cioè, non quella rappresentata nei media.

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– Se potesse psicanalizzare uno scrittore dell’ultimo secolo, anche un autore storico non più tra noi, chi le piacerebbe avere tra i suoi pazienti e perché?

 

Non sono mancati i letterati tra i miei pazienti. Tuttavia, mi sarebbe piaciuto poter impedire il suicidio di Cesare Pavese, restituendogli quell’autostima e quell’entusiasmo di vivere che gli venne meno. Naturalmente, anche Dino Campana e la sua ben nota bipolarità mi avrebbero mobilitato non poco. Il motivo è che una mente geniale non può che giovarsi della psicoterapia, forse più di altri. Tuttavia, devo far rilevare un difetto degli artisti in genere. Cioè, utilizzare la conoscenza proveniente dalla psicoterapia per aumentare la complessità del loro genio e non invece per migliorare la solidità della loro personalità. La deriva culturale della psicoterapia, cioè il fatto di mettere al primo posto il fattori culturali, finisce per mettere al secondo posto i fattori terapeutici.

Martedì, 07 Novembre 2017 12:58

Il nuovo libro: La fuoriuscita

Finalmente una storia che affronta in modo particolarmente accurato il tema della psicoterapia e dei suoi eccessi. In dodici capitoli, un viaggio nel mondo delle emozioni, degli affetti, delle dinamiche interpersonali. Una trama profonda e affascinante, che conduce nelle aree cruciali di un percorso che molte persone ormai praticano o hanno praticato. Lo scenario ha qualche punto di contatto con la serie tv Intreatment, ma se ne distingue per la linea narrativa che presenta una vicenda complessa e avvincente, la quale nel finale si tinge di giallo e di risvolti inaspettati.


Se avete domande o osservazioni riguardanti il testo potete scriverle nei commenti

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