IDEE IN PSICHIATRIA, Vol. 3 (2) 2003
Riassunto: L’immagine corporea non è solo il frutto delle senso-percezioni che agiscono nel protomentale ma, in quanto immagine, è il prodotto di una trasformazione mentale che si può definire fantasia, ovvero è un’elaborazione psichica assimilabile al pensiero. Come il pensiero inconscio tende a trasformarsi in pensiero verbale, verso una simbolizzazione più complessa, così l’immagine corporea si traduce in azione e fusione mente-corpo.
Premessa
Parlare di Disturbi di Personalità (DP) senza specificare l’impianto metodologico da cui si parte, potrebbe impedire la comprensione, tanto più se l’aspetto da trattare concerne il corpo, ovvero la componente corporea della personalità.
Parliamo allora di metodo, sapendo che esso consiste nel riconoscimento di alcune condizioni strutturali di base, cioè, nel caso specifico della personalità, di alcuni concetti che ne inquadrano lo sviluppo e permettono di considerare una organizzazione sana oppure una organizzazione patologica della personalità stessa.
Laddove il metodo, quindi, sarà per noi la spina dorsale di una ricerca e valutazione dei risultati ottenuti, la teoria o le teorie cui facciamo riferimento costituiranno dei modelli più o meno rispondenti alle nostre esigenze di esporre i dati derivati dall'esperienza clinica.
Questo ci porterà, di volta in volta, ad utilizzare le elaborazioni di questo o quel teorico della psiche, senza la necessità di aderire in toto ad una teoria, così come si abbraccia un credo filosofico o politico.
La nostra condizione di medici psichiatri, impegnati in ambiente clinico, ci consente quindi di sfuggire alle diatribe scolastiche di natura teorica, per avvicinarci alle evidenze che emergono dall'applicazione di un metodo.
Il metodo
Il primo cardine metodologico riguarda la considerazione dell'unità psicofisica dell'essere umano e del punto di partenza biologico di qualsivoglia sviluppo mentale, ossia, per essere più chiari, l’esistenza di uno stadio protomentale, quale condizione base dello sviluppo psichico dell'uomo.
Il termine protomentale, mediato da Bion, che lo attribuiva alla mentalità di base del gruppo (Bion, 1952), si riferisce per noi alla dimensione preoggettuale del neonato, che però non corrisponde in alcun modo al narcisismo primario di Freud.
In tal senso, concordiamo con Schilder quando dice che: “Non ha senso, perciò, affermare che per il neonato esiste soltanto il corpo, mentre il mondo non esiste. Corpo e mondo sono esperienze intimamente correlate; non si dà l’una senza l’altra.
Quando Freud afferma che a livello narcisistico è presente soltanto il corpo, deve essersi frainteso. Anche il neonato ha un mondo, e probabilmente persino l’embrione ne ha uno.
E’ vero, piuttosto, che a un livello così primitivo non potremo ancora tracciare una netta linea di demarcazione fra mondo e corpo, e sarà più facile riscontrare una parte del corpo nel mondo e una parte del mondo nel corpo. In altre parole, dal punto di vista del pensiero adulto, il corpo sarà proiettato nel mondo, ed il mondo sarà trattenuto contro il corpo.” (Schilder, 1935).
Il secondo cardine metodologico riguarda la struttura della personalità, che prevede l’esistenza di un mondo interno, ossia dell'inconscio, quale componente fondamentale che si sviluppa sulla base della trasformazione di esperienze emotive ed affettive in fantasie (Klein, 1923). La struttura della personalità comprende anche il carattere, ossia il risultato dell'interazione dell'unità psicofisica dell'essere umano col mondo esterno (Gilliéron, 1994).
Il terzo cardine metodologico riguarda l’indispensabilità per lo sviluppo psichico della relazione interumana, ossia l’importanza della funzione di holding, che permetta al neonato di trasformare emozioni e affetti, presenti nello stadio protomentale in forma meno organizzata, in elementi psichici completi, corrispondenti di volta in volta a immagini ricordo (Bergson, 1896) o fantasie inconsce (Klein, cit.), cioè trasformazione in pensiero inconscio (Bion, 1962), che è in grado di essere trasformato poi a sua volta in pensiero verbale (ivi), ossia in possibilità di conoscenza e certezza della propria e altrui identità.
L’enunciazione, per quanto schematica, di questi cardini metodologici ci permette di collocare la nostra ricerca all'interno di una concezione psicodinamica dello sviluppo della personalità, al fine di individuarne i disturbi e gli equilibri patologici.
Vogliamo approfondire, in particolare, l’aspetto corporeo dei DP, senza trascurare né le nove sfaccettature categoriali, in parte sovrapponibili, così come ce le presenta il DSM IV-TR, né i raggruppamenti dimensionali dei tre cluster, delineati dallo stesso manuale. Avendo dichiarato che la trasformazione del protomentale in mentale è un cardine dell’evoluzione della personalità, possiamo aggiungere che i disturbi dell’integrazione mente-corpo si accompagnano sempre agli equilibri patologici che caratterizzano i cluster del DSM.
L’immagine corporea
La disorganizzazione secondaria derivante da fissazioni dello sviluppo, per il fallimento di vario grado della relazione madre-bambino, darà luogo al permanere di frammenti emozionali e deficit affettivi, che rimarranno fuori del processo di mentalizzazione, diminuendo la coesione del sé e aumentando l’angoscia di frammentazione del soggetto. La difficoltà di coesione del sé intaccherà la formazione delle immagini interne o, per dirla con la Klein, degli oggetti interni totali, dando luogo a quello che, secondo noi, è un disturbo del pensiero, innanzitutto inconscio.
In questo senso, anche l’integrazione della dimensione corporea nella struttura intrapsichica della personalità subisce una modificazione, che si traduce successivamente in un difetto di coesione del sé, emergendo in manifestazioni clinicamente evidenti.
Ciò che dovrebbe succedere in uno sviluppo fisiologico della personalità è la formazione dell'immagine corporea, ovvero del prodotto della trasformazione di elementi emotivi e affettivi, dapprima slegati, e poi riuniti in un insieme, ovvero in un’immagine inconscia, la quale è il risultato della maturazione neurofisiologica ma anche delle vicissitudini delle relazioni primarie.
Anche nel caso dell'immagine corporea, potremmo dire che lo stadio del protomentale è un passaggio obbligato verso una forma di organizzazione strutturale che prevede l’interiorizzazione delle impressioni emotive corporee le quali, nella trasformazione mentale, acquistano una valenza simbolica e vanno a costituire la base del pensiero, garantendo la coesione del sé.
Le premesse di quanto sopra stanno già nelle affermazioni di Schilder, il quale propone un modello di immagine corporea che è più ampio del concetto di schema corporeo, attinente quest'ultimo alla neurofisiologia.
[...]La struttura dell'immagine corporea nel suo significato puramente fisiologico è fondata in larga misura su processi che rimangono sullo sfondo della coscienza. E’ lì che comincia una costruzione attiva dell'immagine corporea. E’ vero che una parte di tale costruzione è senz'altro completamente al di fuori del campo della coscienza, ma essa è anche rappresentata da processi psichici consci e «inconsci»[...] (Schilder, cit.)
[...]L’immagine del nostro corpo che ci formiamo nello stesso tempo in cui si sviluppa la nostra personalità, è il modo con cui il nostro corpo appare a noi stessi. Questa «immagine» è costruita con sensazioni provenienti dalla superficie del corpo (tattile, termica, dolorifica etc.). Attraverso questa moltitudine di sensazioni, il soggetto sperimenta direttamente l’unità del corpo. Questa unità percepita è molto più di una percezione…Schilder preferisce chiamarla «immagine del corpo», termine che indica che essa è formata da altro, più che da semplici percezioni…l’immagine del corpo è un processo vivente «in perpetua autocostruzione e autodistruzione interna, un processo continuo di differenziazione e di integrazione» (Schilder) di tutte le esperienze vissute dal soggetto durante tutta la sua vita (percettive, motrici, affettive, sessuali etc.). Si potrebbe anche dire…che essa si confonde per molti dei suoi aspetti, con l’Io della personalità.[...] (Bernard e Trouvé, 1976)
Possiamo considerare definitivamente superata, quindi, la distinzione tra lo schema corporeo, derivato dalle sensazioni, e l’immagine del corpo, derivata dalla percezione, per riconoscere un unico prodotto finale, l’immagine corporea, che si struttura ed evolve nel mondo interno del soggetto, anche se in contatto continuo con il mondo esterno e con le azioni e reazioni del soggetto stesso.
[...]Quando si compie un’azione, si può dire che essa dislochi l’immagine corporea da un posto a un altro e da una forma in un’altra. Possiamo anche spingerci più in là ed affermare che in ogni azione ed in ogni desiderio avvertiamo un cambiamento della nostra immagine corporea.[...](Schilder, cit.)
L’integrazione dell'immagine corporea nella organizzazione della personalità è quindi inevitabile. I disturbi di questa integrazione faranno parte del quadro strutturale deformato nel quale, ad una precaria coesione del sé, si accompagneranno, di volta in volta, alterazioni del vissuto corporeo e disturbi del pensiero.
Pertanto i processi di scissione e identificazione proiettiva, modalità acclarate dell'equilibrio patologico nei DP (Kernberg, 1996), potranno manifestarsi clinicamente anche con il semplice disturbo dell'immagine corporea, emergendo di tanto in tanto nel comportamento con ben note evidenze psicopatologiche.
Prima di passare alle evidenze, può essere interessante accennare alla distinzione fenomenologica (Husserl, 1931) tra corpo in sé (körper) e corpo per me (leib), ossia tra corpo che ho e corpo che sono (Callieri e Felici, 1968), distinzione che ci riporta alla necessità di concepire una trasformazione dell'esperienza sensoriale in esperienza vissuta.
Cioè in qualcosa di simile alla concezione psicodinamica dell'immagine inconscia del corpo (Dolto, 1984), e ci permette di comprendere meglio come si possa configurare in termini esperienziali la comparsa del disturbo, in quanto perdita della soggettività (leib) e scadimento nell'oggettività corporea (körper).
Il corpo vissuto (Merleau-Ponty, 1945) è il segno di un’evoluzione della soggettività, che per noi è innanzitutto legata al pensiero inconscio, e che si esprime con una immediatezza che dimostra l’integrazione assoluta tra la mente e il corpo:…”io non sono di fronte al mio corpo, ma sono nel mio corpo, o meglio sono il mio corpo.” (ivi)
L’immagine corporea, quindi, pur nascendo e integrandosi nel mondo interno, perviene nel mondo esterno, come un prodotto creativo della natura umana, equiparabile al pensiero e al linguaggio. “Il corpo non può essere paragonato all'oggetto fisico, ma piuttosto all'opera d’arte.” (ivi)
Concludiamo questa parte introduttiva, sottolineando la necessità di considerare la valenza dinamica e psicodinamica della immagine corporea, ossia la interrelazione che essa mantiene col mondo, sia interno che esterno.
[...]Un corpo è sempre l’espressione di un Io e di una personalità, ed esiste in un mondo. Al problema del corpo non possiamo dare una risposta neppure preliminare, senza tentare di dare una risposta preliminare al problema della personalità e del mondo.”[...](Schilder, cit.)
Le alterazioni dell'immagine corporea nei DP
Volendo esporre le evidenze psicopatologiche relative all'immagine corporea nei disturbi di personalità, descriviamo almeno due manifestazioni in grado di sintetizzare, secondo linee fondamentali, tutto il corteo di sintomi e stati, dai quali è possibile risalire per configurare una diagnosi o comunque orientarsi sul tipo di patologia della personalità che si ha di fronte.
Parleremo, quindi, di depersonalizzazione e ipocondria.
Dato che la nostra impostazione è psicodinamica integrata alle conoscenze neuroscientifiche, eviteremo di dilungarci sugli aspetti fenomenologici, benché interessanti, per evidenziare ciò che avviene a livello strutturale intrapsichico e intersoggettivo, ovvero illustrare le alterazioni dell'immagine corporea che compaiono in manifestazioni assai frequenti nei DP.
Occorre sottolineare, che i due fenomeni suddetti sono aspecifici, ossia non si riscontrano solo nei DP ma è possibile che si manifestino tanto in soggetti normali quanto in psicotici gravissimi. L’analisi che proponiamo, quindi, tende ad attribuire un significato strutturale ai disturbi in questione, contribuendo alla conoscenza e valutazione più accurata degli equilibri patologici della personalità.
La depersonalizzazione
Si tratta di un vissuto soggettivo nel quale domina l’impressione di irrealtà e di estraneità riferita all’Io, al corpo, all'ambiente (Le Goc-Diaz, 1988).
Benché nei DP si possa manifestare come vissuto di estraneità riferito a tutti e tre gli ambiti, ci occuperemo qui di quella che secondo Wernicke (1900) si definisce depersonalizzazione somatopsichica, detta anche decorporeizzazione (Le Goc-Diaz, cit.). L’alterazione dell’immagine corporea si esprime con:
a) sensazioni di vertigine
b) sensazioni di una separazione tra la persona e l’involucro corporeo
c) sensazioni di modificazione dell’integrità del corpo, della sua densità, della sua forma
Secondo i nostri cardini metodologici, valuteremo il disturbo a livello del protomentale, dell'inconscio, della relazione.
Ciò che avviene nella depersonalizzazione dimostra una permanenza di elementi emotivo-affettivi non elaborati, ossia liberi di manifestarsi ogni volta che uno stress o un evento susciti nel soggetto una reazione che deformi il vissuto corporeo.
Il tasso di emotività-affettività slegate, che si manifesta spesso* con un livello abituale di ansia, tanto che il soggetto stesso si definisce un tipo ansioso, si tramuta in vissuto di estraneità, nel quale l’ansia sembra assente, per poi ripresentarsi quando lo stesso vissuto diventa meno evidente.
Il soggetto dice di sentirsi strano e, finché vive questa sensazione è preoccupato, chiede aiuto e, quasi sempre, pensa a un disturbo organico, oppure ricorre a sostanze tossiche e tenta l'autocura.
Il disturbo dell’immagine corporea si avvicina al disturbo del pensiero, a causa della difficoltà che il soggetto trova nel pervenire a un orientamento anche vago sulle cause del suo malessere, che quasi sempre si riferiscono a relazioni in corso o eventi traumatici scatenanti, rimossi o denegati.
Il soggetto si trova ad affrontare un vissuto catastrofico e pensa che qualcosa di tremendo stia succedendo al suo interno, sicuro che il malessere sia in lui, in quanto «staccato» ormai dal suo corpo, sia nel senso di non riconoscersi in esso, sia nel senso di averne perso i limiti cosicché, come dice Federn (1949), i confini dell’Io si allenterebbero a causa di un ritiro da essi della libido.
In proposito, noi non pensiamo che sia in questione una dinamica pulsionale di disinvestimento della realtà ma, come testimoniano i vissuti frequenti di angoscia di morte e di frammentazione, pensiamo che l’evento esterno, spesso indesiderato ma certamente inatteso, amplifichi il livello di scissione tra rappresentazioni di sé e dell’altro significativo, già presente prima della crisi e che, attraverso il diniego, il soggetto “può escludere dalla sua esperienza soggettiva un’intera area della sua consapevolezza soggettiva, proteggendosi così da una potenziale sfera conflittuale” (Kernberg, 1984), in modo da allontanarsi dalla realtà, materialmente ma soprattutto affettivamente.
Chiamiamo desanimazione (Krapf, 1951) questo allontanamento affettivo, che priva il corpo e gli oggetti familiari dell’elemento che li “anima” e ne riconduce le propaggini all’Io del soggetto.
Quest’ultimo, con la desanimazione, opera una vera e propria “cancellazione” delle ripercussioni interne di un evento traumatico, tuttavia, a differenza dello psicotico grave, che si frammenta anche nel comportamento, il soggetto con DP non riesce del tutto ad eliminare l’affetto.
Egli colloca, quindi, il malessere, non tanto nel mondo esterno o nelle relazioni che sta vivendo, ma nel proprio essere, ed in particolare nel corpo. (Lago, 2002)
Il soggetto stesso, allora, è in grado di operare una disamina meticolosa delle proprie difficoltà, lamentando una perdita di efficienza e funzionalità del corpo che è direttamente proporzionale all’entità del diniego nei confronti dell’evento destrutturante.
Quest’ultimo non deve essere necessariamente un fatto accaduto ma potrebbe consistere nel cambiamento dinamico all’interno di una relazione significativa, la quale abbia il potere di suscitare una destrutturazione nell’assetto controllato e instabile del soggetto con DP. (Bouvet, 1960).
L’ipocondria
Possiamo concordare con la seguente definizione di ipocondria quale “esperienza psicopatologica che…comporta sempre un disturbo globale della personalità esprimentesi o con il dubbio o con il timore o con la certezza di un danno al proprio corpo ed alla propria integrità fisica, indipendentemente dalla presenza o meno di un reale danno organico.” (Lalli, Sassanelli, 1968)
Niente di più adeguato al nostro tema, quindi, poiché l’idea di malattia è tanto irriducibile quanto sembra provenire da una profonda destrutturazione della personalità, esprimendo così il senso di minaccia di frammentazione che il soggetto avverte e del quale l’ipocondria può essere il “suono d’allarme, segnalando il rischio di alterazione della coesione, stabilità, e colorazione affettiva della rappresentazione del sé, e l’urgente bisogno di un recupero narcisistico.” (Storolow, 1979)
L’alterazione dell’immagine corporea avviene, in questo caso, spostando su un organo o una funzione la rappresentazione di ciò che sta avvenendo nel mondo interno del soggetto.
Potremmo dire che la parte del corpo isolata si distacca dall’immagine corporea, che è inconscia, e si pone come oggetto materiale, slegato e disorganizzato rispetto all’insieme.
E’ come se una quota di emotività fosse lasciata dal soggetto nel protomentale, diventando non integrabile con il resto del corpo e della mente, e assumendo la caratteristica di un oggetto bizzarro (Bion, 1962).
Nell’ipocondria, ancor più che nella depersonalizzazione, si ha modo di osservare quanto l’immagine corporea sia il prodotto di una trasformazione mentale, nella quale il corpo non è più solo oggetto ma anche contenuto, qualità interna, componente fondamentale dell’identità della persona.
Possiamo dire, allora, che la comparsa di un disturbo ipocondriaco, con quei caratteri di fissazione e irriducibilità, testimonia della capacità del soggetto di mantenere una scissione al suo interno, compatibile con aspetti di vita normale.
Quanto più plausibile e giustificata da effettivi disturbi organici, l’idea di malattia può covare nell’equilibrio patologico di un DP, per poi emergere, spinta da un evento traumatico o da una imprevista malattia.
A differenza che nelle psicosi deliranti, l’ipocondria nei DP è un processo lento, che tende a innestarsi su fatti reali, anziché scaturire dall’immediatezza di una percezione delirante.
Possiamo parlare, ancora una volta, di “vulnerabilità strutturale della rappresentazione del sé” (Kohut, 1971), ossia di un’incompleta maturazione delle immagini interne (ricordi, fantasie, immagine corporea) che costituiscono la base del pensiero e il fulcro della mentalizzazione matura.
Allo stesso modo che abbiamo visto nella depersonalizzazione, anche nell’ipocondria, il soggetto con DP esprime il disagio creato da cambiamenti strutturali, ad es. come quelli che si sviluppano nel corso di una psicoterapia psicodinamica. Kohut (ivi) ci fa notare che, in particolari momenti di progresso terapeutico, i soggetti in questione possono andare incontro a vissuti ipocondriaci, che si accompagnano spesso a sensazioni di estraneamento.
L’importante osservazione ci permette di connettere le due manifestazioni, depersonalizzazione e ipocondria, in funzione della relazione oggettuale.
Sappiamo, infatti, che nei DP la relazione oggettuale, a causa dell’eccesso di identificazione proiettiva (Kernberg, 1996), è di tipo narcisistico.
Ciò crea un’ambivalenza continua tra avvicinamento e allontanamento dall’altro, visto ora come unico punto di riferimento della realtà, ora come causa di una dipendenza affettiva che priva il soggetto della sua libertà.
Nella relazione terapeutica dei DP, le crisi caratterizzate da depersonalizzazione o da ipocondria “dipendono tanto da un avvicinamento all’oggetto narcisistico, indipendentemente dal fatto che esso avvenga a opera del soggetto oppure dell’oggetto, quanto dall’eccessivo allontanamento di questo, indipendentemente da chi lo intraprenda, il soggetto o l’oggetto.” (Bouvet, cit.)
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